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E-cig, negli Usa si moltiplicano i casi di malattia polmonare

Secondo quanto riportato dai principali mezzi di informazione italiani ed esteri, si moltiplicano i casi di focolai di malattia polmonare associata all’uso di prodotti per sigarette elettroniche registrati negli Usa. Il Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità ha evidenziato in proposito che «al 1 ottobre scorso, infatti, 48 Stati americani e 1 territorio Usa hanno segnalato ai Centers for disease control and prevention (Cdc) 1080 casi e 18 decessi». Nello specifico, l’Iss sottolinea che «tutti i pazienti hanno riferito di usare sigarette elettroniche, dispositivo che permette di inalare vapore, generalmente aromatizzato e contenente quantità variabili di nicotina, senza che avvenga combustione del tabacco come nella sigaretta tradizionale». Ciò nonostante, «la maggior parte dei casi registrati negli Usa ha utilizzato prodotti per e-cig contenenti THC (tetraidrocannabinolo), molti hanno usato prodotti a base sia di THC che di nicotina e altri pazienti hanno consumato prodotti contenenti solamente nicotina». Mentre «molti casi – si legge nella nota – sono collegati all’utilizzo di prodotti acquistati attraverso canali non ufficiali e da rivenditori non autorizzati», sebbene «al momento nessuna singola sostanza o prodotto di sigaretta elettronica è stato associato alla malattia (pur se la causa sospetta sembra essere un’esposizione chimica)».
Dunque, con riferimento alla situazione in Italia le autorità invitano alla massima cautela. «L’assenza di un nesso di causalità – spiega l’Iss – tra i casi di malattia polmonare e una singola sostanza, marchio o metodo di utilizzo lascia i Paesi europei, tra cui l’Italia, in una situazione di allerta. Proprio perché la sigaretta elettronica è un “sistema aperto” in cui si può inserire il prodotto che si preferisce, è fondamentale fare estrema attenzione alle modalità di utilizzo di questi dispositivi». L’Iss evidenzia che «riguardo le ricadute sulla salute, al momento ci sono ancora grandi lacune di conoscenza». Tuttavia, «riguardo l’uso delle sigarette elettroniche in generale – conclude la nota -, e relativamente al focolaio Usa, è necessario un atteggiamento di massima prudenza».
È possibile consultare la nota integrale aprendo questo link https://www.epicentro.iss.it/fumo/e-cig-focolaio-usa

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Lotta all’obesità: può essere favorita dal caffè?

Il caffè potrebbe essere il segreto per combattere l’obesità. È l’ipotesi emersa in uno studio dell’Università di Nottingham, in Gran Bretagna. Gli studiosi hanno scoperto che bere una tazza di caffè può stimolare il “grasso bruno”, le difese corporee per combattere il grasso, che potrebbero essere la chiave per combattere l’obesità e il diabete. Lo studio pionieristico, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, è uno dei primi ad essere condotto sull’uomo per trovare componenti che potrebbero avere un effetto diretto sulle funzioni del “grasso bruno”, una parte importante del corpo umano che svolge un ruolo chiave ruolo in quanto velocemente possiamo bruciare calorie come energia.
Il tessuto adiposo marrone (Bat), noto anche come grasso bruno, è uno dei due tipi di grasso presenti nell’uomo e in altri mammiferi. Inizialmente attribuito solo a neonati e mammiferi in letargo, negli ultimi anni è stato scoperto che anche gli adulti possono avere grasso bruno. La sua funzione principale è quella di generare calore corporeo bruciando calorie (al contrario del grasso bianco, che è il risultato della conservazione delle calorie in eccesso). Le persone con un indice di massa corporea inferiore (BMI) hanno quindi una maggiore quantità di grasso bruno. «I risultati sono stati positivi – spiegano gli studiosi – e ora dobbiamo accertare che la caffeina come uno degli ingredienti del caffè agisce come stimolo o se c’è un altro componente che aiuta con l’attivazione del grasso bruno. Attualmente stiamo esaminando gli integratori di caffeina per verificare se il l’effetto è simile». Inoltre, «una volta che abbiamo confermato quale componente è responsabile di ciò, potrebbe potenzialmente essere usato come parte di un regime di gestione del peso o come parte del programma di regolazione del glucosio per aiutare a prevenire il diabete».

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Integratori per body building, nuove evidenze relative alla lesione epatica negli uomini

Come ogni stagione, l’autunno costituisce il periodo ideale per rimettersi in forma e smaltire qualche chilo accumulato durante la siesta estiva. Tuttavia, oltre ad un’attività fisica regolare e spontanea, spesso si ricorre ad integratori e prodotti salutistici, con la finalità di incrementare massa muscolare e volume. Ultimo, in ordine cronologico, uno studio pubblicato sulla rivista scientifica «Alimentary Pharmacology & Therapeutics», che ha puntato l’attenzione sui danni epatici conseguenti all’utilizzo di tali integratori. Nello specifico,  i ricercatori hanno arruolato 44 uomini con danno epatico, attribuiti a integratori da bodybuilding da banco, sperimentando un modello uniforme e distintivo di segni e sintomi che erano spesso prolungati, difficili da trattare e accompagnati da disabilità e perdita di peso.
Ebbene, nel corso delle ricerche, gli studiosi hanno scoperto che i prodotti ingeriti contenevano spesso steroidi anabolizzanti illeciti non accuratamente elencati sull’etichetta. «Gli steroidi anabolizzanti – spiega Andrew Stolz, dell’Università della California del Sud, Los Angeles – devono essere utilizzati solo sotto la stretta supervisione di un medico». In aggiunta a ciò, «i pazienti devono informare i loro medici se stanno assumendo qualsiasi forma di integratore alimentare e dovrebbero essere particolarmente diffidenti nei confronti degli integratori per bodybuilding, che possono contenere steroidi anabolizzanti controllati dalle autorità americane, tra cui la Fda».

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L’importanza di non assumere antibiotici se non prescritti dal medico

Un medicinale antibiotico non è un farmaco di automedicazione. Dunque, la sua somministrazione deve essere seguita solo ed esclusivamente dopo l’esplicita richiesta del medico e solo quanto strettamente necessario. In tal caso, è importante assumere correttamente la terapia per tutta la durata della presrizione, anche se i sintomi presentati dovessero scomparire prima della fine del ciclo prescritto. Sono pochi, ma essenziali, i motivi che dovrebbero spingere le popolazioni ad un utilizzo quanto più ridotto e mirato degli antibiotici, medicinali che se presi quando servono aiutano l’organismo a superare le infezioni sostenute da quei microrganismi che il corpo non riesce a combattere naturalmente. Spesso però, si fa un uso sconsiderato e del tutto fuori luogo di tali rimedi. Soprattutto nel caso quando li si tratta alla pari di farmaci di automedicazione.
Perché gli antibiotici vanno usati solo quando servono? Il primo motivo è a causa del fenomeno dell’antibiotico-resistenza. Una condizione in cui i microrganismi patogeni sviluppano una serie di difese che li portano ad essere appunto più “resistenti”, e quindi a sopravvivere, ai comuni antibiotici in commercio, al punto da costringere ad usare antibiotici sempre più potenti per combattere infezioni batteriche che prima potevano essere risolte con i farmaci più comuni. Un altro importante motivo, per cui gli antibiotici non dovrebbero essere usati alla pari di farmaci di automedicazione, è che in molte situazioni non sono effettivamente necessari. Tra queste, il caso della classica influenza sostenuta dai comuni virus stagionali. In tale contesto somministrare un antibiotico, a meno che non sia prescritto dal medico, può essere addirittura controproducente. Si limita infatti la capacità dell’organismo di difendersi autonomamente a causa di una possibile riduzione delle difese immunitarie seguente all’uso di antibiotici. Ne consegue che un eventuale virus acquisirebbe maggior forza e capacità di diffusione.
Infine, un altro aspetto poco considerato, ma non meno importante, riguarda la contaminazione ambientale della filiera alimentare grazie ai metaboliti escreti dall’organismo. I metaboliti sono gli “scarti” conseguenti all’assunzione degli antibiotici. Essi fuoriescono dal nostro organismo attraverso il sudore, la saliva, le feci e le urine. In particolare, feci ed urine che contengono i metaboliti di determinati antibiotici possono contaminare la catena alimentare quando, attraverso il sistema fognario, finiscono nei mari. In tal caso i pesci e le specie presenti negli ambienti marini verrebbero a loro volta contaminati e dunque rientrerebbero nella filiera alimentare. Concludendo, l’utilizzo degli antibiotici è qualcosa di non poco conto. In tal caso il ruolo del farmacista è fondamentale perché deve assicurarsi che l’antibiotico sia effettivamente necessario e dunque prescritto dal medico. Il farmacista non può consegnare un antibiotico ad un paziente senza che sia sprovvisto dell’opportuna prescrizione del medico. E a sua volta, il paziente non può prendere un antibiotico se questo non è effettivamente necessario e prescritto dal medico.

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La qualità del sonno predice il rischio di morte nel diabete e nell’ipertensione

Il diabete di tipo 2 e l’ipertensione sono due condizioni di salute molto comuni in tutto il mondo. Se da un lato esistono modi per gestirli, tali condizioni possono tuttavia aumentare il rischio di sviluppare malattie cardiache e subire un ictus. Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Journal of American Heart Association ha scoperto che il sonno può svolgere un ruolo cruciale per le persone con queste condizioni di salute. L’analisi del team ha rivelato che 512 persone, su un totale di 1654 partecipanti, le quali erano morte entro il 2016, circa due quinti erano deceduti a causa di cause legate a malattie cardiache o ictus, mentre quasi un quarto era deceduto a seguito di una diagnosi di cancro. Ciò che ha attirato l’attenzione degli investigatori è stato il fatto che tra le persone che avevano ipertensione o diabete di tipo 2, il rischio di morte per malattie cardiache o ictus era due volte più alto in coloro che dormivano per meno di 6 ore a notte rispetto a quelli che dormivano per 6 ore o più.
Per gli individui con una di queste due condizioni di salute che dormivano più a lungo, l’aumento del rischio di morte prematura non era significativo. Inoltre, i partecipanti alla cardiopatia e al gruppo di ictus che dormivano per meno di 6 ore a notte avevano quasi tre volte il rischio di morire per cause correlate al cancro. «Il nostro studio – spiega Julio Fernandez Mendoza, autore principale dello studio – suggerisce che il raggiungimento del sonno normale può essere protettivo per alcune persone con queste condizioni e rischi per la salute». Tuttavia, avverte, «sono necessarie ulteriori ricerche per esaminare se il miglioramento e l’aumento del sonno attraverso terapie mediche o comportamentali possano ridurre il rischio di morte precoce».