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Perché ricordiamo la musica (ma non tutto il resto)?

C’è quasi sempre musica nelle nostre vite: al bar, in auto, lavorando da casa, in cuffia mentre facciamo jogging o siamo seduti in tram. Allora non dovrebbe sorprenderci più di tanto sapere che abbiamo una memoria piuttosto potente in fatto di musica: ricordiamo senza troppa difficoltà testi e melodie, perfino se non li ascoltiamo da anni. Quando sentiamo risuonare musica nella nostra mente, stiamo sviluppando quelle che tecnicamente si chiamano “immagini musicali” o “immagini uditive”.

“Se ti chiedono di pensare alla canzone “Happy Birthday”, probabilmente sarà facile richiamarla alla mente nel momento in cui te la chiedono, ma potrai ricordatela anche involontariamente, in qualsiasi istante, senza che qualcuno ti chieda di farlo. Questo è ciò che chiamiamo un earworm: il fatto di rammentare una canzone senza cercare effettivamente di ricordarla”, afferma la dott.ssa Kelly Jakubowski, assistente professore di psicologia musicale alla Durham University nel Regno Unito. È del tutto normale avere “un motivetto in testa” che continuiamo a canticchiare nella nostra mente (e non solo), magari più volte al giorno o per più giorni di seguito. Circa il 90% delle persone sostiene di avere una “canzone fissa in testa” almeno una volta a settimana. 1/3 afferma di averne una ogni giorno. “La musica è profondamente intrecciata all’identità personale.

Quando le persone identificano brani musicali facilmente, cioè senza avere a disposizione molte informazioni a riguardo, spesso si tratta della musica della loro giovinezza, legata a ricordi di natura autobiografica”, spiega Jakubowski. “Gli anziani ricordano perfettamente alcune canzoni perché in passato hanno ascoltato quei dischi innumerevoli volte. Una canzone può sollecitare il ricordo di un certo periodo della vita, determinate esperienze,… a cui ormai l’abbiamo associata in modo indissolubile”. E questo è vero a tal punto che, sia che si tratti di immagini musicali che dell’ascolto effettivo di un brano, la musica ci provoca le stesse risposte emotive. Sì, perché di una canzone non ricordiamo soltanto la melodia e il testo, bensì le emozioni che accende dentro di noi. “Orientarsi verso il messaggio emotivo, in realtà, aiuta a ricordare meglio il motivo musicale”, sottolinea la dott.ssa Andrea Halpern, professoressa di psicologia alla Bucknell University in Pennsylvania.

Anche coloro che non suonano strumenti musicali, i non musicisti, hanno una memoria musicale molto attenta e accurata. Come detto poco sopra, l’esposizione prolungata all’ascolto musicale nell’arco della giornata e, più in generale, nel corso della nostra vita, facilita la memorizzazione di melodie, parole, emozioni che ne derivano. Qualcuno si chiede come mai pare più semplice ricordare canzoni che non un qualcosa di più banale come ad esempio dove abbiamo appoggiato le chiavi o cosa abbiamo mangiato il giorno prima a pranzo. Quest’apparente contraddizione sembra dipendere, ancora una volta, dalla frequenza con cui sperimentiamo la musica, nel mondo e nella nostra mente, e dalla gioia che questo contatto produce, in rapporto alla nostra identità e al nostro stato d’animo.

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Allergie stagionali, come affrontare la sintomatologia che le accompagna?

Le reazioni allergiche sono mediate dal sistema immunitario e rappresentano la conseguenza di una sensibilizzazione verso sostanze chimiche a cui ci si sia precedentemente esposti. Queste sostanze nel soggetto non allergico sono innocue. In caso di allergia, il composto o un suo metabolita definito aptene si coniuga con proteine per formare un antigene, che determina la produzione di anticorpi; la reazione antigene-anticorpo attiva una risposta cellulare con liberazione di mediatori dell’infiammazione.

Le sostanze immunogene sono molteplici: possono trovarsi nell’ambiente, come pollini, pelo e saliva di animali, acari della polvere, muffe, ma comprendono anche alimenti, metalli pesanti, prodotti chimici contenuti in detergenti e cosmetici, farmaci.

La reazione allergica può essere scatenata dall’inalazione dell’allergene, dalla sua ingestione o dall’esposizione cutanea. Nella prima evenienza avremo reazioni allergiche caratterizzate da rinite, infiammazione della congiuntiva, irritazione della gola e, nei casi più gravi, laringospasmo e broncospasmo. Considerata la stagione, prendiamo in esame le allergie causate dai pollini di alcune piante.

Quando si esce di casa, si consiglia di proteggere la zona oculare indossando gli occhiali da sole e, al rientro, di lavarla con acqua fresca. Può apportare sollievo anche il lavaggio delle fosse nasali con soluzione fisiologica. A fine giornata, può essere utile farsi uno shampoo, dal momento che i capelli possono aver raccolto i pollini durante il periodo trascorso all’aria aperta. Per lo stesso motivo suggeriamo di stendere i panni in casa.

Come farmaci preventivi, si utilizzano i cromoni, che occorre assumere almeno 2-4 settimane prima dell’esposizione agli allergeni, proseguendo la terapia per tutta la stagione di fioritura.

Tra i farmaci sintomatici, citiamo gli antistaminici per via orale o contenuti all’interno di spray nasali e colliri. Quelli di ultima generazione consentono spesso un’unica somministrazione giornaliera e hanno il vantaggio di provocare una minore sonnolenza.

Per contrastare rinite, rossore e prurito oculari in commercio si trovano spray e colliri decongestionanti, a base di vasocostrittori.

In caso di reazioni più severe con crisi asmatiche, si usano broncodilatatori e cortisonici, da assumere per via nasale o orale. Questi farmaci vanno impiegati sotto consiglio e prescrizione del medico.

Invitiamo a non allarmarsi in caso di rinorrea e starnuti in questo periodo dell’anno, rischiando di confondere questi sintomi con quelli di Covid-19. Chi soffre da tempo di allergie sa che gli starnuti ripetuti e il naso che cola sono molto frequenti, a differenza di quanto accade nell’infezione da coronavirus. In quest’ultima è presente il più delle volte la febbre, che invece non si presenta nelle manifestazioni allergiche.

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I benefici sulla salute del sole di primavera

Avere una buona esposizione al sole può portare a una serie di vantaggi oltre a fornire un immediato miglioramento dell’umore. Tale attività è stata ricollegata ai diversi benefici per la salute, tra cui una riduzione del diabete di tipo 2, capacità di aiutare nella perdita di peso per prevenire l’obesità, ridurre dello sviluppo di alcuni tipi di cancro. A questi si aggiungono il miglioramento della protezione della vista attraverso una migliore salute degli occhi, l’abbassamento della pressione sanguigna e migliorare la qualità e la durata del sonno notturno. Rafforzare significativamente il sistema immunitario, aumentando i linfociti T (la prima linea di difesa del nostro organismo contro infezioni e malattie), è un altro dei benefici di un’esposizione regolare al sole di primavera.

Anche i bambini hanno bisogno di tempo per giocare all’aperto per migliorare il funzionamento mentale e la capacità di apprendimento. Gli adulti hanno bisogno del sole per migliorare la capacità di ridurre lo stress: elemento che contribuisce a migliorare l’umore e che solo il sole può fornire. Le raccomandazioni per l’esposizione al sole suggeriscono almeno quindici minuti al giorno e molto di più nei periodi invernali. Tuttavia, la primavera è arrivata: una dolce passeggiata al sole del mattino per un quarto d’ora ogni giorno farà miracoli per la salute, umore e benessere.

Nonostante i benefici, al di là degli ovvi impatti sulla salute di una sovraesposizione alla luce solare – come l’invecchiamento precoce della pelle e il rischio di scottature –, il cancro della pelle è un rischio significativo e sottorappresentato. Attualmente esiste un tasso di sopravvivenza per il cancro della pelle di oltre l’85%, il che significa che non è tutto disastroso anche se la malattia viene diagnosticata. La maggior parte delle persone continua a vivere una vita sana e felice, nonostante le precedenti scelte in termini di prendere troppo sole senza un’adeguata protezione. È utile dunque proteggersi nelle ore di punta e limitare l’esposizione in alcune delle ore centrali della giornata.

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Che cos’è un trauma?

La definizione di “trauma” è infatti una questione molto dibattuta, sia dalla comunità scientifica che dall’opinione pubblica. Quante volte diciamo che un evento ci ha traumatizzato? Tuttavia la medicina definisce “traumi” solo determinati eventi, a partire dai quali derivano specifici percorsi di cura. Partorire, fare un incidente stradale, subire una discriminazione razziale o di genere… Chi non definirebbe simili situazioni come traumatiche? La stessa pandemia da COVID-19 è stata classificata da diversi psicologici come un evento traumatico che ha minato la salute mentale (e non solo fisica) di molte persone, individuando casi di disturbo da stress post-traumatico in aumento.

Eppure la medicina ufficiale non qualifica queste esperienze come traumi. Coloro che hanno perso un parente malato di COVID-19 e coloro che lavorano negli ospedali e nelle case di cura potrebbero rientrare come casi ufficiali e riconosciuti di trauma. Invece la perdita del lavoro dovuta al COVID e l’isolamento sociale in lockdown, per esempio, esulano dalla definizione di trauma. George Bonanno, professore di psicologia clinica alla Columbia University di New York: “La gente ha definito la pandemia traumatica ma non lo è”. Secondo Bonanno siamo troppo propensi a vedere le cose come traumatiche, il più delle volte esagerando.

I suoi studi hanno dimostrato che, con il passare del tempo, la maggior parte di noi si riprenderà anche dalle esperienze più orribili e dolorose. Detto questo, sostiene Bonanno, il termine “trauma” ha ormai perso il suo significato scientifico originario, proprio per il suo abuso. “Le persone dicono di essere traumatizzate da cose relativamente banali”, dice Bonanno. Questo in effetti è un problema, perché se un numero sempre più alto di esperienze umane è classificato come “traumatico”, più persone soddisferanno i criteri per una diagnosi di disturbo da stress post traumatico.

Fra queste, alcune potrebbero ricevere un trattamento non necessario, magari a discapito di eventuali pazienti in lista d’attesa. Al contrario, altri studiosi ritengono che la definizione medica di trauma dovrebbe essere ufficialmente ampliata per assorbire una maggiore varietà di esperienze. Non si tratta soltanto di un dibattito linguistico-terminologico, viste le ricadute pratiche sulla vita delle persone e dei potenziali pazienti. In altre parole: ciò che definiamo trauma e le esperienze definite traumatiche determina se le persone saranno diagnosticate e curate inutilmente o meno per disturbi da stress post traumatico. Oppure, viceversa, se vivranno con sintomi che non verranno adeguatamente curati poiché non riconosciuti dalla medicina ufficiale come reali casi di trauma.

Per esempio, chi ha avuto un incidente stradale e riportato ferite lievi potrebbe sognare l’incidente, sussultare al suono di una frenata improvvisa, fino a smettere temporaneamente di guidare. Questi sintomi da stress post traumatico tendenzialmente svaniscono entro un mese dall’evento. Se così non fosse, la persona potrebbe essere sottoposta a cure specifiche per stress conseguente a eventi traumatici. Ma alla maggior parte delle persone tutto questo non accade: siamo molto più resilienti di quel che crediamo.

Il prof. Bonanno ha scoperto che perfino il modo in cui una persona pensa può migliorare le sue probabilità di guarigione. Si riferisce a una “mentalità flessibile”, un insieme di caratteristiche che tendono ad essere associate a risultati migliori. Nella sua ricerca, le persone generalmente fiduciose, ottimiste e preparate per le sfide, oltre a essere in grado di capire la loro situazione e a come migliorare la loro sorte, tendono a cavarsela meglio anche in situazioni riconducibili a traumi e disturbi da stress post traumatico.

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Bambini e insonnia: il decalogo dei pediatri

Anche i bambini soffrono d’insonnia. Se il problema interessa una persona su dieci dai sei anni fino all’adolescenza, nella fascia fino ai cinque anni, l’insonnia riguarda un bambino su cinque. E così, per favorire il riposo notturno, i pediatri della Società italiana di pediatria (Sip) hanno indicato dieci accorgimenti da seguire.

Per i bambini, rispettare l’orario della nanna tutte le sere. Abituare il piccolo sin dalla tenera età ad addormentarsi sempre alla stessa ora, adattando i ritmi della famiglia a quelli del bimbo e non viceversa. Le buone abitudini vanno mantenute e consolidate nella crescita, variandole in base all’età. Far dormire il bambino sempre nello stesso ambiente (che sia la sua cameretta o nei primi mesi quella dei genitori), con luci soffuse senza device accesi, ed eventualmente con una musica dolce e monotona di sottofondo, non facendolo addormentare in ambienti diversi, come sul divano.

Nei primi due o tre mesi di vita manca la fase di addormentamento, nel senso che non è possibile riconoscere con precisione quando il bambino sta crollando. In quelli successivi invece, appena si nota che il piccolo non succhia più con forza e chiude gli occhietti, si deve staccarlo dal seno e metterlo nel lettino. Rispettare l’orario dei pasti durante il giorno, adeguandosi ai ritmi del bambino. Mai usare il tablet o altri dispositivi elettronici dopo cena. Spegnere tutto almeno un’ora prima dell’addormentamento. La luce dei device, infatti, riduce la produzione di melatonina. Mantenere tutti gli apparecchi elettronici fuori dalla stanza da letto. Non dare troppo cibo o acqua prima di dormire.

Evitare il latte o altri liquidi compresa la camomilla durante i risvegli, preferire piuttosto l’utilizzo di un oggetto consolatorio, come il ciuccio. Regolare con attenzione l’esposizione alla luce. Per il sonnellino pomeridiano, mantenere la luce dell’ambiente e ridurre il più possibile l’esposizione durante la notte. Evitare sostanze eccitanti dopo le 16. No a tè, solo deteinato in caso, no a bevande contenti caffeina e no alla cioccolata. Favorire un’alimentazione equilibrata. Con un adeguato introito di liquidi durante il giorno. Preferire cibi con fibre e triptofano che è un precursore della melatonina, come carni bianche, pesce azzurro, verdure verdi, legumi e cereali. No ai bambini nel lettone. Abituarli all’autonomia vuol dire anche lasciarli dormire nel proprio ambiente. Nei casi di risveglio, riportarli sempre nel loro lettino. Un metodo che può funzionare è promettere un premio al bambino se non va nel letto dei genitori.