Come è noto, il colesterolo è un grasso presente naturalmente in tutti i tessuti degli organismi animali e in modo particolare nel cervello, nella bile e nel sangue. Quantitativi fisiologici di colesterolo nell’organismo svolgono diverse funzioni tra cui la salvaguardia delle membrane cellulari, la costruzione della guaina dei nervi, la crescita e divisione cellulare ed infine nello sviluppo embrionale. Inoltre, il colesterolo consente di alimentare importanti funzioni metaboliche come la produzione di ormoni steroidei, vitamina D e acidi biliari. Il livello di colesterolo del sangue è chiamato colesterolemia. Tale valore, costituito da colesterolo totale, colesterolo Hdl – detto buono -, e colesterolo Ldl – detto cattivo-, se nella norma non rappresenta alcun rischio della salute. Tuttavia, qualora l’apporto di colesterolo alimentare contribuisca all’innalzamento di tale livello, esso può costituire un grave e fondamentale fattore di rischio per l’insorgenza e le complicanze delle malattie cardiovascolari.
A differenza di altri valori, gli elevati livelli di colesterolo nel sangue non manifestano alcun sintomo. Alla luce di ciò, soprattutto a causa degli stili di vita moderni costituiti dal cosiddetto “cibo spazzatura”, è possibile ritrovarsi a dover gestire valori elevati di colesterolo. Per poter agire in maniera preventiva è possibile consultare il proprio farmacista di fiducia e richiedere il controllo dei livelli di colesterolo mediante l’auto-analisi del sangue. In pratica, un modo oggi molto diffuso e validato per poter misurare i valori di colesterolo totale, ma anche Hdl e Ldl, prelevando solo alcune gocce di sangue dal polpastrello di un dito, al fine di conoscerne immediatamente il risultato. Ciò per prevenire in maniera consapevole l’insorgenza di eventi che possano compromettere la propria salute. Allo stesso modo, anche coloro che sono già consapevoli di avere livelli di colesterolo elevati e che stiano seguendo una terapia ipocolesterolemizzante, possono rivolgersi al proprio farmacista di fiducia effettuando tale controllo in pochi secondi.
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
Una dieta povera ha causato la cecità di un giovane paziente. È quanto riferisce un caso clinico pubblicato su Annals of Internal Medicine. Secondo gli autori, la neuropatia ottica nutrizionale dovrebbe essere presa in considerazione in tutti i pazienti con sintomi visivi inspiegabili e cattiva alimentazione, indipendentemente dall’indice di massa corporea. I rischi di cattiva salute cardiovascolare, obesità e cancro associati al consumo di cibo spazzatura sono ben noti, ma una cattiva alimentazione può anche danneggiare permanentemente il sistema nervoso, in particolare la vista. La neuropatia ottica nutrizionale è una disfunzione del nervo ottico solitamente causata da malassorbimento, droghe o cattiva alimentazione combinata con alcolismo e/o fumo. È raro nei paesi sviluppati. La condizione è potenzialmente reversibile se rilevata in anticipo. Ma se non trattato, porta alla cecità permanente.
I ricercatori del Bristol Eye Hospital a Bristol, nel Regno Unito, riferiscono del caso di un paziente di 14 anni che ha visitato il suo medico di famiglia lamentando stanchezza. Oltre ad essere etichettato come un “mangiatore esigente”, il ragazzo aveva un indice di massa corprea normale e non prendeva medicine. I test hanno mostrato anemia macrocitica e bassi livelli di vitamina B12, che sono stati trattati con iniezioni di vitamina B12 e consigli dietetici. All’età di 15 anni, il paziente aveva sviluppato perdita dell’udito e sintomi della vista, ma non è stata trovata alcuna causa. Mentre, all’età di 17, la sua visione era progressivamente peggiorata, fino alla cecità.
I medici hanno dunque studiato la nutrizione del paziente riscontrando carenza di vitamina B12, bassi livelli di rame e selenio, un alto livello di zinco e un marcato livello di vitamina D e densità minerale ossea. Il paziente ha confessato che dalla scuola elementare aveva evitato cibi con determinate caratteristiche e mangiato solo patatine fritte, pane bianco, fette di prosciutto e salsiccia. Al momento della diagnosi delle sue condizioni, il paziente aveva una vista permanentemente compromessa.
Gli avvertimenti stampati sulle singole sigarette potrebbero svolgere un ruolo chiave nel ridurre il fumo. È quanto sostiene una nuova ricerca portata a termine dall’Università di Stirling, in Scozia. Come è noto, le passate normative di diversi paesi europei e mondiali hanno imposto l’apposizione di immagini di soggetti malati sui pacchetti di sigarette, al fine di scoraggiare al vizio del fumo. Gli esperti dell’Istituto di marketing sociale di Stirling hanno esaminato le percezioni dei fumatori sull’avvertimento “Il fumo uccide” stampato sulle singole sigarette, al contrario del messaggio che appare solo sui pacchetti. Il gruppo di studiosi, guidato da Crawford Moodie, ha scoperto che i fumatori ritengono che l’approccio innovativo abbia il potenziale per scoraggiare il fumo tra i giovani, coloro che iniziano a fumare e i non fumatori.
I partecipanti allo studio hanno ritenuto che l’avvertimento su una sigaretta avrebbe prolungato il loro messaggio di allerta come se visto da un pacchetto, acceso, lasciato in un posacenere e con ogni estrazione, rendendo così più difficile il comportamento da evitare. La visibilità dell’avvertimento per gli altri era percepita come scoraggiante per alcuni perché era associata a un’immagine negativa. All’interno di numerosi gruppi femminili, gli avvertimenti erano considerati deprimenti, preoccupanti e spaventosi. La stampa delle avvertenze su ogni singola sigaretta potrebbe essere una soluzione ulteriore da implementare, sebbene la disassuefazione dal vizio del fumo potrebbe comunque richiedere un intervento multidisciplinare, che comprenda il supporto del proprio medico curante o del farmacista di fiducia.
I livelli di lipoproteine a bassa densità (Ldl), ovvero il colesterolo comunemente chiamato “cattivo”, devono essere abbassati il più possibile per prevenire le malattie cardiovascolari, specialmente nei pazienti ad alto e altissimo rischio. È quanto indicato nelle Linee guida della European Society of Cardiology (Esc) e della European Atherosclerosis Society (EAS) per le dislipidemie, pubblicate sulla rivista scientifica European Heart Journal e sul sito web della stessa Esc, in occasione del congresso annuale della cardiologia svoltosi a Parigi dal 31 agosto al 4 settembre 2019, che ha riunito esperti da tutto il mondo.
Le malattie cardiovascolari sono responsabili di oltre quattro milioni di decessi in Europa ogni anno. Le arterie ostruite sono il principale tipo di malattia. Le linee guida forniscono consigli su come modificare i livelli lipidici nel sangue attraverso lo stile di vita e uso di farmaci per ridurre il rischio di malattie aterosclerotiche. Ad oggi, non esiste un limite inferiore di colesterolo Ldl noto per essere pericoloso. Per questo motivo, le linee guida mirano a garantire che i farmaci disponibili (statine, ezetimibe, inibitori del PCSK9) siano utilizzati nel modo più efficace possibile a livelli più bassi in quelli a rischio. A tal proposito, gli esperti raccomandano i pazienti raggiungano sia il livello target di colesterolo Ldl, sia una riduzione relativa minima del 50%.
Per favorire tale riduzione vengono usate principalmente le statine, le quali, seppur ben tollerate, in alcuni casi sviluppano una serie di effetti collaterali, tra cui aumento del rischio di diabete e miopatia. Tuttavia, le statine non sono raccomandate nelle donne in pre-menopausa che considerano una gravidanza o che non usano una contraccezione adeguata. Quanto all’uso di prodotti alternativi, gli esperti raccomandano «integratori di olio di pesce, in combinazione con una statina, per i pazienti con ipertrigliceridemia nonostante il trattamento con statine. In questi pazienti, gli integratori riducono di circa un quarto il rischio di eventi aterosclerotici, inclusi infarto e ictus». Inoltre, evidenziano gli esperti, «le persone dovrebbero essere incoraggiate ad adottare e sostenere uno stile di vita sano». Nello specifico, una dieta sana, l’eliminazione del fumo di sigaretta e l’esercizio fisico regolare.
«La fisioterapia nel mondo tra ricerca e innovazione», è questo il titolo al centro della Giornata mondiale della fisioterapia che sarà celebrata domenica 8 settembre 2019. La giornata, spiega l’Associazione italiana fisioterapisti (Aifi) «è un’opportunità in tutto il mondo per sensibilizzare il cittadino circa il fondamentale contributo che il fisioterapista può dare per la salute delle persone». Il fisioterapista, come ricorda la stessa Aifi, «è un professionista della sanità in possesso del diploma di laurea o titolo equipollente, che lavora, sia in collaborazione con il medico e le altre professioni sanitarie, sia autonomamente, in rapporto con la persona assistita, valutando e trattando le disfunzioni presenti nelle aeree della motricità, delle funzioni corticali superiori e viscerali conseguenti ad eventi patologici, a varia eziologia, congenita o acquisita». È utile ricordare, a tal proposito, che il fisioterapista ha l’obbligo di iscrizione all’Ordine dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione.
In occasione della ricorrenza dell’8 settembre numerose farmacie sul territorio ospiteranno al loro interno dei fisioterapisti con l’obiettivo di fornire informazioni utili ai pazienti «sul tema del dolore cronico – si legge sul sito dell’Aifi – e sul ruolo che la fisioterapia e l’attività fisica possono avere nell’aiutare le persone a gestire il dolore cronico». Perché nelle farmacie? La legge 69/2009, cosiddetta “Farmacia dei servizi”, prevede che nelle farmacie opportunamente organizzate e con spazi adeguati, possano operare infermieri e fisioterapisti, nell’esercizio delle loro rispettive funzioni. In tal modo diverse farmacie pubbliche e private territoriali possono erogare al loro bacino di utenza di riferimento servizi a valore aggiunto, sebbene non rimborsati dal Ssn.