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Prediabete e stile di vita, si può parlare di “reversibilità”?

Ricevere una diagnosi di prediabete, noto anche come intolleranza glucidica, ci rivela che la glicemia, cioè la percentuale di glucosio nel sangue, è superiore ai livelli di normalità ma non al punto da classificarlo come diabete. Fortunatamente siamo di fronte a una condizione di salute ancora reversibile e, soprattutto, ad un campanello di allarme per chi ne soffre. Una serie di cambiamenti nello stile di vita contribuiranno ad evitare di ammalarsi seriamente di diabete.

Sintomi del prediabete.

Non esistono sintomi sempre e comunque evidenti del prediabete ma alcune condizioni di partenza o pregresse possono contribuire a svilupparlo. Ad esempio, avere più di 45 anni ed essere in sovrappeso, oppure essere sotto i 45 anni di età ma presentare ulteriori fattori di rischio da sommare al sovrappeso. Altre concause che possono favorire l’insorgere del prediabete sono la scarsa attività fisica, un parente stretto già diabetico, aver sofferto di diabete gestazionale o aver avuto un figlio di peso superiore ai 4 Kg al momento della nascita, soffrire di pressione alta, trigliceridi alti, colesterolo HDL basso.

Come curare il prediabete.

Il prediabete può essere arginato e trattato apportando modifiche alla dieta e allo stile di vita. Chi soffre di prediabete dovrebbe, prima di tutto, muoversi di più. È noto come la sedentarietà aumenti il rischio di diabete di tipo 2. L’attività fisica regolare aiuta a tenere sotto controllo i livelli di glucosio nel sangue, a migliorare la sensibilità all’insulina e a mantenersi in forma. Il sovrappeso è infatti uno dei principali fattori di rischio del diabete di tipo 2. A fronte di una diagnosi di prediabete, perdere il 5-10% del proprio peso corporeo può ritardare o invertire la comparsa del diabete.

Stress e prediabete.

Tra le varie conseguenze psicosomatiche dello stress c’è anche la possibilità di stimolare lo sviluppo del prediabete o di peggiorarne la condizione. Uno squilibrio degli ormoni dello stress – cortisolo e adrenalina – può infatti far aumentare i livelli di glucosio nel sangue. Per evitare tutto questo bisogna trovare del tempo da dedicare solo a sé stessi per rilassarsi, ridere, stare in compagnia di buoni amici e famigliari, controbilanciare le situazioni stressanti della vita quotidiana. Inoltre, varrebbe la pena pianificare delle passeggiate, delle attività di svago, delle ore da investire in uno o più hobby per recuperare energie positive.

La dieta di un prediabetico.

Chi soffre di prediabete deve apportare qualche aggiustamento alla composizione dei pasti quotidiani. Una porzione sana per un prediabetico dovrebbe essere composta per metà da verdure non amidacee e verdure a foglia verde, per l’altra metà di proteine magre, cereali integrali, carboidrati sani. Un buon apporto di fibre terrà a bada i livelli di glicemia senza appesantire l’organismo ma anzi saziandolo in modo sano. Noci e frutta sono ottime opzioni per spuntini e fuori pasto: sono sì zuccherini ma in modo naturale. Da evitare, invece, le bevande gassate e zuccherate, bibite energetiche, bibite analcoliche, sciroppi e dessert liquidi: tutte fonti di zuccheri particolarmente dannose per un prediabetico. La ricerca afferma che la sostituzione di queste bevande con alternative a basso contenuto calorico abbassa il rischio di diabete dal 2 al 10%.

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Cuore sano da adulti se l’infanzia è stata serena

A novembre è stato pubblicato sullo European Heart Journal il più ampio studio condotto finora sul rapporto tra avversità infantili e malattie cardiovascolari (CVD). Studi precedenti hanno dimostrato che vivere situazioni stressanti da bambini come la privazione materiale, la perdita della famiglia, tensioni tra familiari (le cosiddette “avversità infantili”) sono associate a un maggiore rischio di CVD tra le persone di mezza età e gli anziani. Con “privazione materiale” s’intendono la povertà familiare e la disoccupazione di lunga durata dei genitori. La perdita o la minaccia di perdita riguardano la malattia somatica e la morte dei genitori e dei fratelli. Le tensioni e le dinamiche familiari comprendono i collocamenti in affidamento, le malattie psichiatriche di qualche famigliare, l’abuso di alcol e droghe da parte dei genitori e la separazione materna.

La novità e i risultati della ricerca danese.

Pochissimi studi hanno indagato la connessione tra avversità infantili e CVD evidenti nella prima età adulta. Questo progetto di ricerca, realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Copenaghen, ha preso in esame quasi 1,3 milioni di bambini nati tra gennaio 1980 e dicembre 2001, fino al 2018. Nel corso del periodo considerato, 4.118 bambini hanno sviluppato un qualche disturbo cardiovascolare tra i 16 e i 38 anni di età, in particolare malattie cardiovascolari, cardiopatie ischemiche e malattie cerebrovascolari.

Effetti cardiovascolari delle avversità infantili.

“Rispetto ai giovani adulti che hanno vissuto poche avversità durante l’infanzia, abbiamo riscontrato un rischio maggiore di circa il 60% di sviluppare malattie cardiovascolari tra i giovani adulti che hanno vissuto avversità” – dichiara Naja Hulvej Rod, coordinatrice del progetto. “Ciò era particolarmente vero per coloro che avevano sperimentato malattie gravi, come cancro, malattie cardiache o polmonari, o morte in famiglia, e per coloro che avevano sperimentato livelli elevati di avversità nell’infanzia. In numeri assoluti, ciò corrisponde a 10-18 casi di CVD in più ogni 100.000 persone. Per confronto, l’incidenza di CVD nelle persone di 30 anni è di circa 50 casi di CVD per 100.000 persone”.

Perché un’infanzia difficile incide sulla salute del cuore?.

“L’associazione che abbiamo riscontrato tra avversità infantili e CVD nella prima età adulta – evidenzia Rod – può essere spiegata in parte da comportamenti che possono influire sulla salute, come il consumo di alcol, il fumo e l’inattività fisica. L’infanzia è un periodo delicato, caratterizzato da un rapido sviluppo cognitivo e fisico; l’esposizione frequente e cronica alle avversità nell’infanzia può influenzare lo sviluppo della risposta fisiologica allo stress, e ciò può fornire un’importante spiegazione dei meccanismi alla base di questi risultati”. Questi risultati suggeriscono che interventi mirati alle origini sociali delle avversità e fornendo supporto alle famiglie colpite possono avere effetti cardioprotettivi a lungo termine.

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Crampi alle gambe durante il sonno: cosa fare

Nel cuore della notte un polpaccio, una coscia, un piede o entrambi possono irrigidirsi fino al punto di non riuscire più a muoverli. La sensazione che si prova in quei momenti è di improvviso, intenso dolore nell’area del muscolo contratto. I crampi muscolari possono durare pochi secondi, diversi minuti ma anche ripresentarsi più volte nel giro di poco tempo prima di scomparire del tutto. Ci sono persone che accusano crampi notturni raramente, magari una volta all’anno, altre invece che ne soffrono spesso, persino ogni notte e per anni.

Come sciogliere i crampi notturni alle gambe?.

I crampi possono essere alleviati allungando il muscolo interessato, che in alcuni casi continuerà a dolere lievemente anche nelle ore successive alla sua scomparsa. Talvolta i crampi alle gambe possono essere leniti massaggiando l’area dolente, scaldando il muscolo interessato, cercando di muovere il più possibile la gamba o il piede contratti. Se per esempio il crampo notturno colpisce il polpaccio bisogna distendere la gamba e, anche aiutandosi con una o entrambe le mani, piegare le dita del piede affinché puntino verso la propria testa. In alternativa, o in combinata, si può camminare sui talloni per alcuni minuti. Sta di fatto che se il crampo si manifesta prima di addormentarsi, sarà più difficile riposare. Se si verifica mentre si dorme, sarà più complicato tornare a dormire.

I crampi notturni non sono RLS.

I crampi notturni alle gambe non vanno confusi con la sindrome delle gambe senza riposo (RLS). Tuttavia entrambi i disturbi hanno spiacevoli ripercussioni sul riposo notturno. La RLS produce movimenti inconsulti delle gambe, nel complesso improvvisamente doloranti, e possono riguardare anche il viso, il petto e le braccia. Le sensazioni tipiche della sindrome delle gambe senza riposo comprendono formicolii, bruciori, prurito o fitte alle gambe, brividi, sensazione di avere “acqua frizzante” nelle vene, sensazione di sofferenza agli arti. Il bisogno di muovere le gambe è molto più forte con la RLS che non con i crampi notturni. Inoltre, sciogliere un crampo alle gambe richiede molto più tempo e maggiore distensione del muscolo rispetto a quanto può bastare in caso di RLS.

Sintomi e fattori di rischio dei crampi alle gambe.

I segnali che precedono un crampo a una gamba o a un piede mentre si dorme consistono principalmente in una sensazione dolorosa nell’area interessata, laddove il muscolo si irrigidisce e si contrae. I crampi notturni agli arti possono verificarsi a qualsiasi età ma colpiscono soprattutto gli anziani. Le condizioni patologiche che possono favorirne la comparsa durante il riposo notturno sono: diabete, malattie cardiocircolatorie, alcuni disturbi metabolici, alcune malattie del sistema nervoso, patologie muscolari. Nondimeno, i crampi alle gambe possono essere correlati anche a una serie di circostanze parallele: sforzi fisici importanti, uso di alcuni farmaci, disidratazione, disturbi endocrini, elettrolitici, problemi di deambulazione, ecc.

Esistono farmaci per curare i crampi notturni alle gambe?.

Ad oggi non esistono trattamenti farmacologici specifici per i crampi alle gambe sofferte nelle ore notturne. Fare esercizio fisico ogni giorno stirando i muscoli delle gambe può essere una buona strategia preventiva, così come bere acqua e rimanere idratati nell’arco di tutta la giornata (e non solo al momento dei pasti). Potrebbero essere utili anche un massaggio o una doccia calda prima di coricarsi.

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Esercizio fisico, benefici e differenze dell’attività aerobica e anaerobica

Fare sport e movimento è sempre meglio che vivere sedentari. Questa è un’evidenza scientifica che ogni organizzazione legata alla salute ribadisce di continuo. Se si ha la possibilità di scegliere quale attività praticare, gli esperti consigliano di alternare un allenamento di tipo aerobico a uno di tipo anaerobico, perché sono entrambi benefici per la salute, ma in modo diverso. Secondo gli esperti del Consiglio europeo di informazione sull’alimentazione (Eufic), «qualsiasi tipo di attività giova alla salute, ma non tutte producono lo stesso effetto sul corpo. Includendo tutte le forme di attività nella routine settimanale, si possono aumentare i benefici». Scendendo più nel dettaglio l’Eufic spiega che «il corpo attua diversi processi per rilasciare energia e adeguarsi al fabbisogno energetico in situazioni diverse, che si tratti di affettare le verdure o di correre una maratona. Alcuni processi sono “aerobici”, dove “aer” si riferisce all’uso dell’ossigeno nel processo di produzione di energia dei muscoli. Altri sono “anaerobici” e non richiedono ossigeno per rilasciare energia. A seconda della durata e dell’intensità dell’attività fisica, il corpo ha bisogno di produrre energia nel modo più efficace, e i processi aerobici e anaerobici spesso si completano a vicenda».

Processi aerobici e processi anaerobici.

Applicando il concetto esposto sopra all’esercizio fisico, si definisce attività aerobica quella che per essere praticata richiede al corpo l’uso di ossigeno per produrre l’energia necessaria. Questo processo si attiva in base all’intensità, alla durata e ai tipi di fibre muscolari coinvolti. Se ciò non avviene, l’allenamento viene definito anaerobico, durante il quale il corpo trae energia in modo diverso. «Quando facciamo esercizi anaerobici – spiega l’Eufic – il corpo lavora intensamente per un breve periodo di tempo e quindi ha un bisogno immediato di energia. Tale energia proviene da componenti che sono già immagazzinate nel corpo e già disponibili. Il processo non richiede ossigeno, ma la quantità di energia che può essere rilasciata in questo modo è piuttosto limitata». Gli esercizi aerobici sono in genere meno intensi ma più prolungati e cuore e polmoni lavorano duramente per fornire ossigeno. «Il corpo – proseguono gli esperti – utilizza questo ossigeno per abbattere le fonti di energia come i grassi e il glucosio, per rilasciare l’energia necessaria a eseguire l’esercizio».

L’ideale è alternare le attività.

Praticare sia l’attività aerobica sia quella anaerobica permette di beneficiare di effetti positivi diversi per la salute. Limitarsi a una delle due comporta la perdita di parte dei benefici. Nell’allenamento aerobico rientrano per esempio la camminata, la corsa, la bicicletta e il nuoto. Per svolgere queste attività, il corpo aumenta respirazione e frequenza cardiaca. «Questo tipo di esercizio è importante per molte funzioni e aiuta a mantenere in salute il cuore, i polmoni e il sistema circolatorio, oltre a migliorare la funzione cardiorespiratoria. È dimostrato che una regolare attività aerobica riduce il rischio di sviluppare numerose malattie, come patologie cardiache, ictus, diabete di tipo 2, demenza e persino alcuni tumori. È stato anche dimostrato che l’attività fisica in generale riduce il rischio di depressione» – sottolineano gli esperti. L’esercizio anaerobico, invece, consiste in esercizi a elevata intensità per una breve durata (pochi secondi o minuti), attraverso i quali si migliora la potenza, la forza e le dimensioni dei muscoli. Secondo l’Eufic, «un’attività anaerobica regolare aumenta la densità della massa ossea, rallentandone la naturale degenerazione che si verifica con l’età, e riducendo così il rischio di osteoporosi».

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Perché le emozioni possono essere così dolorose?

C’è una relazione tra dolore emotivo e dolore fisico? Se sì, in che modo sono collegate queste complesse dimensioni del dolore? Le ultime scoperte scientifiche stanno facendo luce sui meccanismi condivisi che sono alla base di entrambi i tipi di dolore.

Dolore cerebrale.

Se la vista e l’udito hanno terminazioni nervose tracciabili dagli occhi e dalle orecchie fino a una precisa regione del cervello, l’attività cerebrale in risposta al dolore è più articolata. Ad esempio include pensieri ed emozioni, motivo per cui un buon libro può alleviare il mal di denti o il dolore fisico dovuto a una scottatura fa più male quando si è tristi che non quando si è sereni.

Emozioni come causa di un dolore fisico.

Le emozioni non si limitano a rispecchiare i sintomi di un dolore fisico esistente. L’angoscia o l’imbarazzo possono produrre, a loro volta, un dolore organico che può non avere una causa fisica ma non per questo essere meno reale. Altresì, l’umore depresso altera l’esperienza stessa del dolore. La ricerca ha dimostrato che se una persona, anche temporaneamente, soffre di una qualche sindrome depressiva percepirà il dolore fisico in maniera più acuta di una persona non depressa.

Il ciclo del dolore.

Il dolore è quindi influenzato dalle emozioni e viceversa. Il ciclo del dolore e quello delle emozioni sono correlati. Gli stati emotivi possono avere un impatto diretto sui cambiamenti fisici: quando si prova ansia o rabbia, per esempio, i muscoli del corpo possono irrigidirsi aumentando la percezione del dolore. Ancora, studi scientifici hanno evidenziato che il dolore fisico cronico potrebbe non essere causato solo da lesioni fisiche ma anche da stress e problemi emotivi.

La reciproca influenza degli stati dolorosi.

Molte persone hanno già familiarità con il fatto che lo stress emotivo può portare a dolori di stomaco, sindrome dell’intestino irritabile e mal di testa, ma potrebbero non sapere che può anche causare altri disturbi fisici e persino dolore cronico. Stiamo parlando della cosiddetta bidirezionalità del ciclo del dolore: più le persone sono ansiose e stressate, più i loro muscoli sono tesi e contratti, causando nel tempo affaticamento e inefficienza dei muscoli.

L’interpretazione del dolore e come affrontarlo.

Il modo in cui le persone interpretano le proprie emozioni e il proprio dolore guidano gli schemi creati dal cervello per leggere e gestire la realtà. “Il nostro livello di paura del dolore e la narrazione che ci raccontiamo sul dolore possono influenzare il modo in cui il nostro cervello impara ad affrontarlo nel tempo”, spiega Tor Wager, PhD, direttore del Cognitive and Affective Neuroscience Lab presso l’Università del Colorado a Boulder. Ci sono molte opzioni per rimodulare la nostra capacità di interpretare correttamente i dolori che percepiamo. La terapia cognitivo comportamentale (CBT), per esempio, insegna a riconoscere e modificare i modelli di pensiero negativi che influenzano il modo in cui proviamo dolore. La meditazione, lo yoga, il tai chi, l’agopuntura e pratiche simili possono aiutare a dirigere e distrarre la mente dal concentrarsi sul dolore. L’attività fisica regolare allevia la depressione, l’ansia, il dolore e migliora la mobilità fisica.