Uno studio condotto su quasi 1,7 milioni di ragazzi di 18 anni ha rilevato che un indice di massa corporea più elevato è associato a un rischio maggiore di infarto prima dei 65 anni. È quanto presentato durante il congresso della Società europea di cardiologia, svolto a Parigi in concomitanza al Congresso mondiale di cardiologia, dal 31 agosto al 4 settembre 2019. Lo studio ha incluso tutti gli uomini svedesi nati tra il 1950 e il 1987 e arruolati per il servizio militare obbligatorio all’età di 18 anni. Durante l’arruolamento, tutti i 1.668.921 uomini sono stati sottoposti a ampi esami fisici e psicologici, come indice di massa corporea, pressione sanguigna, quoziente intellettivo e test cardiovascolari e idoneità muscolare. Gli uomini sono stati seguiti tra il 1969 e il 2016 per un follow-up massimo di 46 anni. Registri di pazienti e decessi svedesi sono stati usati per registrare quanti hanno avuto un infarto fatale o non fatale più tardi nella vita.
Ebbene, dai dati analizzati è emerso che ci sono stati 22.412 attacchi di cuore che si sono verificati a un’età media di 50 (età massima 64). L’aumento dell’indice di massa corporea nei giovani di 18 anni era associato a un elevato rischio di infarto prima dei 65 anni, anche dopo aggiustamento per età, anno di coscrizione, comorbilità al basale, educazione parentale, pressione sanguigna, quoziente intellettivo, forza muscolare ed infine fitness. «Mostriamo che l’indice di massa corporea nei giovani è un marcatore di rischio straordinariamente forte che persiste durante la vita». È quanto spiega Maria Aberg, autrice principale dello studio, dell’Università di Göteborg, Svezia. Secondo la ricercatrice «il nostro studio supporta un attento monitoraggio dell’indice di massa corporea durante la pubertà e la prevenzione dell’obesità con un’alimentazione sana e fisica attività. Scuole e genitori – conclude Aberg – possono fare la loro parte incoraggiando gli adolescenti a trascorrere meno tempo libero davanti a uno schermo e fornendo cibo sano».
Categoria: Notizie
Il servizio informativo per i pazienti del centro “L’Incontro” a Teano (CE).
Gli esseri umani sono costantemente in contatto con numerosi agenti chimici, condizioni meteorologiche e altre esposizioni derivate da ciò che ci circonda e dalle abitudini quotidiane. Sia all’esterno, che negli ambienti domestici, sono centinaia le possibilità di entrare in contatto con sostanze che possono intaccare la nostra salute. Per monitorare le interazioni tra ambiente e sostanze inquinanti, uno studio pubblicato sul Journal of American College of Cardiology ha analizzato gli effetti di 200 esposizioni ambientali durante la gravidanza e l’infanzia, giungendo alla conclusione che alcune delle esposizioni ambientali potrebbero avere un impatto sulla pressione sanguigna nei bambini.
Nello specifico, lo studio condotto sui dati provenienti da sei diversi paesi europei, Spagna, Francia, Grecia, Lituania, Norvegia e Regno Unito, ha analizzato un totale di 1.277 bambini e le loro madri. Le esposizioni agli agenti inquinanti sono state valutate durante la gravidanza e quando i bambini avevano un’età compresa tra i 6 e gli 11 anni. Durante il periodo di analisi, i ricercatori hanno valutato un totale di 89 esposizioni prenatali e 128 postnatali, raggruppandole in tre categorie. Si tratta di: esposizioni esterne (inquinamento atmosferico, condizioni meteorologiche, spazi verdi, ecc.), sostanze chimiche (pesticidi, metalli, plastificanti, ecc.) ed infine fattori di stile di vita (dieta, attività fisica, schemi di sonno, ecc.).
Ebbene, alla luce di quanto rilevato, l’analisi ha accertato un’associazione tra varie esposizioni e pressione sanguigna più alta nei bambini. Le esposizioni associate all’aumento della pressione sanguigna includevano l’esposizione al fumo di tabacco e al bisfenolo A (un plastificante) durante la gravidanza. Allo stesso modo, i bambini con concentrazioni sieriche più elevate di rame e acido perfluoroottanoico (PFOA, un composto usato in pentole e padelle antiaderenti, indumenti, ecc.) avevano una pressione sanguigna più alta.
Come è noto, il colesterolo è un grasso presente naturalmente in tutti i tessuti degli organismi animali e in modo particolare nel cervello, nella bile e nel sangue. Quantitativi fisiologici di colesterolo nell’organismo svolgono diverse funzioni tra cui la salvaguardia delle membrane cellulari, la costruzione della guaina dei nervi, la crescita e divisione cellulare ed infine nello sviluppo embrionale. Inoltre, il colesterolo consente di alimentare importanti funzioni metaboliche come la produzione di ormoni steroidei, vitamina D e acidi biliari. Il livello di colesterolo del sangue è chiamato colesterolemia. Tale valore, costituito da colesterolo totale, colesterolo Hdl – detto buono -, e colesterolo Ldl – detto cattivo-, se nella norma non rappresenta alcun rischio della salute. Tuttavia, qualora l’apporto di colesterolo alimentare contribuisca all’innalzamento di tale livello, esso può costituire un grave e fondamentale fattore di rischio per l’insorgenza e le complicanze delle malattie cardiovascolari.
A differenza di altri valori, gli elevati livelli di colesterolo nel sangue non manifestano alcun sintomo. Alla luce di ciò, soprattutto a causa degli stili di vita moderni costituiti dal cosiddetto “cibo spazzatura”, è possibile ritrovarsi a dover gestire valori elevati di colesterolo. Per poter agire in maniera preventiva è possibile consultare il proprio farmacista di fiducia e richiedere il controllo dei livelli di colesterolo mediante l’auto-analisi del sangue. In pratica, un modo oggi molto diffuso e validato per poter misurare i valori di colesterolo totale, ma anche Hdl e Ldl, prelevando solo alcune gocce di sangue dal polpastrello di un dito, al fine di conoscerne immediatamente il risultato. Ciò per prevenire in maniera consapevole l’insorgenza di eventi che possano compromettere la propria salute. Allo stesso modo, anche coloro che sono già consapevoli di avere livelli di colesterolo elevati e che stiano seguendo una terapia ipocolesterolemizzante, possono rivolgersi al proprio farmacista di fiducia effettuando tale controllo in pochi secondi.
Una dieta povera ha causato la cecità di un giovane paziente. È quanto riferisce un caso clinico pubblicato su Annals of Internal Medicine. Secondo gli autori, la neuropatia ottica nutrizionale dovrebbe essere presa in considerazione in tutti i pazienti con sintomi visivi inspiegabili e cattiva alimentazione, indipendentemente dall’indice di massa corporea. I rischi di cattiva salute cardiovascolare, obesità e cancro associati al consumo di cibo spazzatura sono ben noti, ma una cattiva alimentazione può anche danneggiare permanentemente il sistema nervoso, in particolare la vista. La neuropatia ottica nutrizionale è una disfunzione del nervo ottico solitamente causata da malassorbimento, droghe o cattiva alimentazione combinata con alcolismo e/o fumo. È raro nei paesi sviluppati. La condizione è potenzialmente reversibile se rilevata in anticipo. Ma se non trattato, porta alla cecità permanente.
I ricercatori del Bristol Eye Hospital a Bristol, nel Regno Unito, riferiscono del caso di un paziente di 14 anni che ha visitato il suo medico di famiglia lamentando stanchezza. Oltre ad essere etichettato come un “mangiatore esigente”, il ragazzo aveva un indice di massa corprea normale e non prendeva medicine. I test hanno mostrato anemia macrocitica e bassi livelli di vitamina B12, che sono stati trattati con iniezioni di vitamina B12 e consigli dietetici. All’età di 15 anni, il paziente aveva sviluppato perdita dell’udito e sintomi della vista, ma non è stata trovata alcuna causa. Mentre, all’età di 17, la sua visione era progressivamente peggiorata, fino alla cecità.
I medici hanno dunque studiato la nutrizione del paziente riscontrando carenza di vitamina B12, bassi livelli di rame e selenio, un alto livello di zinco e un marcato livello di vitamina D e densità minerale ossea. Il paziente ha confessato che dalla scuola elementare aveva evitato cibi con determinate caratteristiche e mangiato solo patatine fritte, pane bianco, fette di prosciutto e salsiccia. Al momento della diagnosi delle sue condizioni, il paziente aveva una vista permanentemente compromessa.
Gli avvertimenti stampati sulle singole sigarette potrebbero svolgere un ruolo chiave nel ridurre il fumo. È quanto sostiene una nuova ricerca portata a termine dall’Università di Stirling, in Scozia. Come è noto, le passate normative di diversi paesi europei e mondiali hanno imposto l’apposizione di immagini di soggetti malati sui pacchetti di sigarette, al fine di scoraggiare al vizio del fumo. Gli esperti dell’Istituto di marketing sociale di Stirling hanno esaminato le percezioni dei fumatori sull’avvertimento “Il fumo uccide” stampato sulle singole sigarette, al contrario del messaggio che appare solo sui pacchetti. Il gruppo di studiosi, guidato da Crawford Moodie, ha scoperto che i fumatori ritengono che l’approccio innovativo abbia il potenziale per scoraggiare il fumo tra i giovani, coloro che iniziano a fumare e i non fumatori.
I partecipanti allo studio hanno ritenuto che l’avvertimento su una sigaretta avrebbe prolungato il loro messaggio di allerta come se visto da un pacchetto, acceso, lasciato in un posacenere e con ogni estrazione, rendendo così più difficile il comportamento da evitare. La visibilità dell’avvertimento per gli altri era percepita come scoraggiante per alcuni perché era associata a un’immagine negativa. All’interno di numerosi gruppi femminili, gli avvertimenti erano considerati deprimenti, preoccupanti e spaventosi. La stampa delle avvertenze su ogni singola sigaretta potrebbe essere una soluzione ulteriore da implementare, sebbene la disassuefazione dal vizio del fumo potrebbe comunque richiedere un intervento multidisciplinare, che comprenda il supporto del proprio medico curante o del farmacista di fiducia.