Le persone che seguono diete prevalentemente a base vegetale possono avere un rischio inferiore di sviluppare diabete di tipo 2 rispetto a quelle che seguono queste diete con minore aderenza. È quanto afferma un recente studio denominato «Association Between Plant-Based Dietary Patterns and Risk of Type 2 Diabetes», pubblicato sulla rivista scientifica Jama Internal Medicine. I ricercatori hanno anche scoperto che l’associazione era più forte per le persone la cui dieta enfatizzava cibi sani a base vegetale. Se diversi studi precedenti hanno suggerito che i modelli dietetici a base vegetale possono aiutare a ridurre il rischio di diabete di tipo 2, mancano le ricerche che analizzano il corpo complessivo delle prove epidemiologiche. Secondo i ricercatori, lo studio attuale fornisce le prove più complete finora per l’associazione tra aderenza a diete sane a base vegetale e riduzione del rischio di diabete di tipo 2.
I ricercatori hanno inoltre identificato nove studi che hanno esaminato questa associazione e sono stati pubblicati fino a febbraio 2019. La loro analisi includeva dati sulla salute di 307.099 partecipanti con 23.544 casi di diabete di tipo 2. Hanno analizzato l’adesione a una dieta “complessiva” prevalentemente a base vegetale, che potrebbe includere un mix di cibi sani a base vegetale come frutta, verdura, cereali integrali, noci e legumi, ma anche alimenti a base vegetale meno sani come le patate, farina bianca e zucchero e modeste quantità di prodotti animali. I ricercatori hanno anche esaminato le diete “salutari” a base vegetale, che sono state definite come quelle che enfatizzano gli alimenti sani a base vegetale, con un minor consumo di alimenti a base vegetale malsana. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che le persone con la più alta aderenza alle diete prevalentemente a base vegetale avevano un rischio inferiore del 23% di diabete di tipo 2 rispetto a quelle con una più debole aderenza alle diete. Hanno anche scoperto che l’associazione è stata rafforzata per coloro che hanno mangiato diete salutari a base vegetale.
Un meccanismo che può spiegare l’associazione tra diete prevalentemente a base vegetale e riduzione del rischio di diabete di tipo 2, secondo i ricercatori, è che è stato dimostrato che cibi sani a base vegetale migliorano individualmente e congiuntamente la sensibilità all’insulina e la pressione sanguigna, riducono l’aumento di peso, e alleviare l’infiammazione sistemica, che può contribuire al rischio di diabete. «Nel complesso – spiega Qi Sun, tra gli autori dello studio -, questi dati hanno sottolineato l’importanza di aderire alle diete a base vegetale per raggiungere o mantenere una buona salute e le persone dovrebbero scegliere frutta e verdura fresca, cereali integrali, tofu e altri alimenti vegetali sani come pietra angolare di tali diete».
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Il servizio informativo per i pazienti del centro “L’Incontro” a Teano (CE).
Il latte, alimento decantato per le proprietà benefiche e nutrizionali, potrebbe costituire un pericolo per la salute. Ad accendere dubbi in merito alla sicurezza di questo prezioso alimento prezioso troppo usato – gli esseri umani sono gli unici mammiferi a far uso di latte anche oltre i sei mesi dalla nascita, bevendolo spesso per tutta la vita – è lo studio «Production-related contaminants (pesticides, antibiotics and hormones) in organic and conventionally produced milk samples sold in the USA», pubblicato sulla rivista scientifica «Public Health Nutrition» edito da Cambridge University Press, nel giugno del 2019. Lo studio si è posto l’obiettivo di determinare se il latte alimentare industriale – a differenza di quello biologico – contenesse sostanze che nocive per la salute. I ricercatori, dopo aver raccolto diversi quantitativi di latte biologico e di latte convenzionale, hanno dunque proceduto all’analisi dei livelli di pesticidi, antibiotici ed ormoni (ormone della crescita bovino (bGH), fattore di crescita simile all’insulina 1 associato a bGH (IGF-1)).
Ebbene, secondo quanto constatato dagli esperti, in seguito alla misurazione sono stati rilevati pesticidi per uso corrente e antibiotici in diversi campioni convenzionali ma non nei campioni organici, vale a dire nel latte biologico. Tra i campioni convenzionali, i livelli residui di antibiotici hanno superato i limiti imposti negli Stati Uniti di amoxicillina in un campion e in più campioni per sulfametazina e sulfatiazolo. Mentre, per quanto riguarda le concentrazioni degli ormoni di crescita bGH e IGF-1 presenti nel latte convenzionale, essi erano rispettivamente venti e tre volte più alti rispetto ai campioni organici. Da qui, le conclusioni degli studiosi: nonostante gli antibiotici e i pesticidi in uso non erano rilevabili nei campioni di latte biologici, erano tuttavia prevalenti nei campioni di latte prodotti convenzionalmente, con campioni multipli che superavano i limiti federali. Ne consegue che, secondo quanto rilevato, «livelli più elevati di bGH e IGF-1 nel latte convenzionale suggeriscono la presenza dell’ormone della crescita sintetico», sebbene i ricercatori abbiano evidenziato che «sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere l’eventuale impatto di queste differenze sui consumatori».
Quando un paziente entra in farmacia può trovarsi di fronte ad alcune situazioni in cui il farmaco prescritto non è presente in farmacia. Nella maggior parte dei casi il prodotto viene ordinato e può essere ritirato nel giro di poche ore in farmacia. Tuttavia, in alcuni specifici casi, non è possibile ricevere un determinato farmaco prescritto, né nella propria farmacia di fiducia, né in altre farmacie del circondario. Cosa accade dunque, in questo ultimo caso? Quali sono le motivazioni alla radice del problema? L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), vale a dire l’ente regolatorio nazionale che garantisce l’accesso al farmaco e il suo impiego sicuro ed appropriato come strumento di difesa della salute, ha specificato che quando un farmaco è mancante da tempo nel ciclo di distribuzione, ovvero non si trova attraverso le farmacie territoriali, il problema può derivare da due differenti tipi di cause. La prima è legata a difficoltà nella produzione, ovvero, come riferisce l’Aifa, «a problemi produttivi sono spesso correlati alla non-redditività di farmaci “datati” o di basso costo». A questi possono aggiungersi anche problemi tipici della produzione, quale l’esaurimento del principio attivo, o il blocco dell’import di una determinata sostanza dovuto a diverse ulteriori cause. Uno scenario simile si è avuto nel luglio del 2018 con riferimento ai sartani utilizzati per l’ipertensione arteriosa. In quei mesi erano state trovate alcune impurità presso uno dei siti produttivi del principio attivo e per questo motivo le agenzie regolatorie europee avevano bloccato l’importazione di qualsiasi quantitativo di principio attivo, rendendo dunque impossibile la produzione del farmaco.
Un altro problema che può influenzare la disponibilità di un farmaco, è relativo a distorsioni del mercato riconducibili al fenomeno del «parallel trade», che, come sottolineato dall’Aifa «sfrutta le differenze di prezzo dei farmaci sui diversi mercati». In sostanza, un farmaco che un’azienda commercializza sul mercato italiano ad un determinato prezzo viene inviato all’estero, verso un paese nel quale quel farmaco è venduto ad un prezzo maggiore. In questo caso gli intermediari coinvolti nel processo – peraltro completamente legale – cercano di raccogliere quante più confezioni di farmaci sul territorio italiano per mandarli in paesi come la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra, e in generale i paesi del Nord Europa.
Questo secondo caso è in via di risoluzione grazie ad un tavolo predisposto presso il ministero della Salute. Il ministro Giulia Grillo infatti ha preso in carico la problematica coinvolgendo tutte le sigle della filiera del farmaco al fine di proporre delle soluzioni atte a scongiurare questo fenomeno ed evitare che farmaci importanti di cui non è presente un equivalente sul mercato possano creare problemi di salute ai pazienti costretti a prenderli. In tutti i casi sopra descritti, il farmacista di fiducia può fornire informazioni utili ed aggiornate a capire di fronte a quale situazione ci si trova e proporre una soluzione più o meno temporanea per aggirare o risolvere il caso in cui non si riesca ad accedere ad un determinato farmaco.
Gli anziani dovrebbero essere regolarmente sottoposti a screening per prevenire malattie cardiache e ridurre il rischio di diabete. È quanto emerge dalle nuove linee guida «Prevenzione primaria di ASCVD e T2DM nei pazienti a rischio metabolico: una linea guida di pratica clinica della società endocrina», pubblicate dalla Endocrine Society sulla rivista scientifica The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism (JCEM). Come è noto, tra i fattori di rischio per le malattie cardiache e il diabete rientrano grande quantità di grasso corporeo addominale, basso colesterolo HDL (“buono”), alti livelli di grasso nel sangue noti come trigliceridi, ipertensione e glicemia alta. I pazienti con almeno tre di questi fattori sono a rischio metabolico, ovvero rischio più elevato di malattie cardiache e diabete.
In tale direzione, le nuove linee guida pubblicate raccomandano lo screening regolare di pazienti con tre o più fattori di rischio e lo screening di pazienti con uno o due fattori di rischio ogni tre anni. Ciò si aggiunge alla valutazione dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari come il colesterolo “cattivo”, il fumo e la storia familiare. La linea guida dà la priorità agli stili di vita e agli interventi comportamentali e discute le nuove opzioni di trattamento medico. Inoltre, sebbene sia focalizzata sugli adulti dai 40 ai 75 anni, essa può essere utilizzata anche per guidare i pazienti al di fuori di questa fascia di età.
Tra i suggerimenti contenuti nelle linee guida vengono evidenziate la «misurazione della circonferenza della vita come parte ordinaria dell’esame clinico», il «controllo annuale della pressione sanguigna e, se elevato, ad ogni visita successiva», il «dare priorità alla modifica dello stile di vita come terapia di prima linea», «l’obiettivo di perdere il 5% o più del peso corporeo iniziale nel primo anno per le persone a rischio metabolico con eccesso di peso», «subire una valutazione del rischio globale di 10 anni per malattia coronarica o malattia cardiovascolare aterosclerotica per guidare l’uso di terapia medica o farmacologica», ed infine «prescrizione della modifica dello stile di vita prima della terapia farmacologica nei pazienti con prediabete per ridurre i livelli di zucchero nel sangue».
Come è noto, esistono in commercio diversi dolcificanti utilizzati in sostituzione del classico zucchero, al fine di favorire un minor apporto calorico ma anche per dolcificare quegli alimenti utilizzati in alimentazioni specifiche per determinate patologie come il diabete. In merito all’uso di questi dolcificanti, Altronconsumo, storica associazione di consumatori in Italia, ha evidenziato che sostituire lo zucchero con i dolcificanti artificiali potrebbe essere una pessima soluzione perché alcuni di essi «presenti nei prodotti cosiddetti “light”, potrebbero favorire diabete e obesità invece di prevenirli». Per questo motivo, l’associazione ha pubblicato alcune linee guida. Nello specifico, che è necessario ridurre quanto più possibile lo zucchero. «È ormai assodato – evidenzia Altroconsumo – che lo zucchero (glucosio, fruttosio e in generale lo zucchero da tavola), nelle quantità in cui siamo abituati a consumarlo, è causa di molti problemi di salute».
Anche gli edulcoranti non rappresenterebbero una buona soluzione come alternativa allo zucchero. Altroconsumo sottolinea a tal proposito che «è vero che sono con “zero calorie”, ma sulla sicurezza degli edulcoranti artificiali, però, il consenso non è unanime. Per decenni sono stati al centro di molte diffidenze: negli anni ‘80 si sospettava che la saccarina fosse cancerogena, più tardi è stata la volta dell’aspartame». L’associazione di consumatori, inoltre, invita a guardare sempre accuratamente le etichette. Se da un lato viene chiesto all’industria di ridurre gli zuccheri, dall’altra essa «risponde riformulando i suoi prodotti, sostituendo lo zucchero con gli edulcoranti. Peccato – evidenzia Altroconsumo – che per il consumatore non sia sempre facile individuare queste nuove formulazioni». Dunque, un altro aspetto a cui prestare attenzione è che «non tutti gli edulcoranti hanno zero calorie».
Infine, conclude Altroconsumo, «gli edulcoranti non sono tutti uguali. Gli edulcoranti intensivi, quelli cioè che forniscono un intenso gusto dolce con pochissime o addirittura senza calorie, sono una categoria molto ampia. Il loro profilo di sicurezza, sebbene tutti siano tecnicamente accettabili secondo l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), non è però sempre cristallino. Nella nostra banca dati sugli additivi gli edulcoranti sono divisi in tre categorie: accettabili, sconsigliati o a rischio di sovradosaggio».