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Quale musica aiuta a prendere sonno più facilmente?

Ascoltare musica per addormentarsi è una pratica piuttosto comune. Tuttavia non è così scontato che la musica che ascoltiamo sia quella giusta per agevolare il sonno. I ricercatori dello studio pubblicato su Plos One hanno esaminato circa un migliaio di playlist musicali su Spotify proposte appositamente dai loro autori per conciliare il riposo notturno.

Quali sono le musiche più ascoltate per addormentarsi?.

In base alla loro analisi delle playlist di Spotify i ricercatori hanno evidenziato che quelle più ascoltate per addormentarsi erano le musiche ambientali. Tuttavia altrettanto abbondantemente ascoltate erano tracce pop e brani indie o rap. Come mai? Sembrerebbero brani troppo vivaci per poterci cullare e invitarci al sonno. La spiegazione sta, secondo gli studiosi, nei meccanismi di funzionamento del nostro cervello. Esso infatti lavora, non solo ma anche, attraverso il riconoscimento di schemi.

Canzoni pop vs ninna nanne.

Se per esempio le canzoni pop che ascoltiamo sono strutturare in modo simmetrico e prevedibile, senza particolari o improvvisi cambiamenti di ritmo e/o melodia, potrebbero fungere da ninna nanna, proprio come quelle che ci canticchiavano mamma e papà da bambini. Un altro elemento che favorisce il sonno è la familiarità con il pezzo in ascolto, al di là del suo genere musicale. Qualsiasi novità, qualunque canzone nuova o poco conosciuta, non sortirebbe lo stesso effetto. Tutto ciò che in qualche modo risulta “sconosciuto” manterrà sveglio il cervello.

Perché ascoltiamo musica per addormentarci.

La musica che ascoltiamo la sera per favorire il sonno ha un effetto rilassante, calmante, talvolta meditativo e contemplativo dentro noi stessi. Può essere ascoltata anche al buio o con poca luce diffusa, per esempio quella di un abat-jour, il che aiuta ulteriormente a chiudere gli occhi e a riposare. Se abbiamo bisogno di ascoltare musica una vota coricati molto probabilmente è proprio perché ci aiuta a chiudere gli occhi e lasciarci andare al riposo notturno.

I consigli degli esperti.

Meglio ascoltare musica senza cuffie prima di addormentarsi o ricordarsi di rimuoverle. È preferibile utilizzare uno sleep timer per spegnere automaticamente la riproduzione sonora e, in linea di massima, seguire le buone pratiche per dormire bene, evitando di guardare schermi digitali (TV, pc, tablet, smartphone). Possibilmente, andare a letto sempre alla stessa ora. La prima regola di un buon riposo notturno è un rigido programma sonno-veglia. Sembra semplice da rispettare ma nella pratica non lo è affatto. Un trucco per abituarsi a una sana routine del sonno è quello di individuare un segnale che regolarmente la faccia scattare: in altre parole, un alert riconoscibile dal nostro cervello, come potrebbe essere, ad esempio, proprio la musica che ascoltiamo.

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Dna, farmaci e loro effetti collaterali: uno studio europeo

I risultati di un progetto di ricerca pluriennale in farmacogenetica messo a punto al CRO – Centro di Riferimento Oncologico di Aviano sono stati pubblicati in questi giorni dalla rivista scientifica The Lancet. Si è trattato uno studio di respiro europeo che ha coinvolto circa 7.000 pazienti in sette Paesi UE. Scopo della ricerca è stato quello di dimostrare che le peculiarità genetiche di ciascun paziente interagiscono con i farmaci somministrati e con conseguenti variazioni negli eventuali effetti collaterali.

Genetica e reazioni ai farmaci.

I ricercatori di Aviano hanno mappato il Dna di 1.232 pazienti ed esaminato 12 geni direttamente coinvolti negli effetti avversi ai farmaci. Quello che hanno scoperto è che i pazienti ai quali è stata somministrata una terapia farmacologica compatibile con le loro caratteristiche genetiche hanno manifestato una notevole riduzione degli effetti collaterali dei farmaci, a differenza dei pazienti ai quali era stata prescritta una terapia standard.

Farmaci oncologici ed effetti collaterali.

Questo studio, finanziato dal programma Horizon 2020, ha analizzato in particolare le reazioni avverse ai farmaci utilizzati nelle terapie oncologiche con l’obiettivo di prevenirle attraverso un attento esame genetico dei pazienti. In base alla mappa genetica del paziente, la scelta del farmaco da somministrare e il suo relativo dosaggio possono abbassare significativamente il rischio di effetti collaterali.

L’importanza dei test genetici.

I test del Dna per delineare una terapia farmacologica a misura di paziente diventano pertanto fondamentali. E non solo per migliorare le strategie di cura e la salute dei pazienti, ma anche per le ripercussioni economiche collegate ai costi sociali che le reazioni avverse ai farmaci possono causare. A ciò si aggiungono i promettenti sviluppi futuri della farmacogenetica e delle raffinate tecnologie analitiche che richiede. Basti pensa che, per esempio, nel 2010 presso il Polo Tecnologico di Pordenone è stata fondata la prima start-up dedicata alla farmacogenetica, alla medicina personalizzata basata sul Dna e all’avanzamento tecnologico di queste discipline.

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Disponibile la guida Aifa «Cosa fare quando “manca” un farmaco?»

Le carenze di farmaci sono un problema che colpisce il sistema sanitario italiano e che richiede una gestione attenta e puntuale. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha adottato una serie di procedure per affrontare le carenze di approvvigionamento di farmaci e garantire la disponibilità di farmaci essenziali per i pazienti. Il primo passo nella gestione delle carenze di farmaci è la segnalazione tempestiva all’Aifa da parte dei produttori di farmaci. Questa segnalazione deve contenere informazioni dettagliate sulla carenza, inclusi i motivi, la durata prevista, la quantità di prodotto disponibile e le misure adottate per mitigare l’impatto della carenza sui pazienti.

Garantire la continuità della cura per i pazienti.

L’Aifa, dopo aver ricevuto la segnalazione, valuta la situazione e adotta una serie di misure per garantire la continuità della cura per i pazienti. In primo luogo, l’Aifa può cercare di reperire il prodotto mancante da altri fornitori nazionali o internazionali. In caso contrario, può autorizzare l’importazione di farmaci equivalenti da altri paesi dell’Unione Europea o di altre parti del mondo. In alternativa, l’Aifa può autorizzare l’uso di farmaci alternativi o la modifica delle modalità di somministrazione del farmaco per garantire la continuità della cura per i pazienti. In ogni caso, l’Aifa lavora in collaborazione con le autorità sanitarie regionali per garantire che i pazienti ricevano la terapia adeguata.

Comunicazione efficace sulle carenze di farmaci.

Per garantire la trasparenza e la comunicazione efficace sulle carenze di farmaci, l’Aifa pubblica sul suo sito web un elenco aggiornato dei farmaci che sono soggetti a carenze di approvvigionamento. L’elenco include informazioni sulla durata prevista della carenza, le misure adottate dall’Aifa e le modalità di gestione della carenza. La gestione delle carenze di farmaci è una priorità per l’Aifa e per tutto il sistema sanitario italiano. Le procedure adottate dall’Aifa garantiscono la continuità della cura per i pazienti, anche in situazioni di carenza di approvvigionamento di farmaci. La collaborazione tra l’Aifa e le autorità sanitarie regionali è fondamentale per garantire la disponibilità di farmaci essenziali per tutti i pazienti che ne hanno bisogno. Si rimanda alla sezione “Documenti allegati” per le istruzioni operative.

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Parkinson: sperimentata la terapia a ultrasuoni

La terapia a ultrasuoni potrebbe rivelarsi molto utile nel diminuire alcuni sintomi tipici della malattia di Parkinson, legati soprattutto ai movimenti degli arti. A dimostrarlo un gruppo di ricercatori della School of Medicine dell’Università del Maryland, il cui lavoro è stato recentemente pubblicato sul Journal of Medicine dell’Università del Maryland.

L’esperimento scientifico con ultrasuoni.

I ricercatori hanno esaminato 94 pazienti malati di Parkinson. Hanno somministrato loro in modo casuale ultrasuoni focalizzati in una specifica area del cervello oppure un trattamento del tutto neutro privo di benefici. Dai dati raccolti è emerso che circa il 70% dei pazienti trattati con ultrasuoni ha ottenuto esiti positivi tre mesi dopo la terapia sperimentale.

Vantaggi e svantaggi degli ultrasuoni.

L’intervento con ultrasuoni sperimentato dai ricercatori dell’Università del Maryland ha sortito tre ordini di vantaggi nella maggioranza dei pazienti: nella capacità di deambulazione, nel livello dei tremori, nella rigidità degli arti. Tuttavia, va detto che la terapia a ultrasuoni comporta anche dei lievi effetti collaterali: mal di testa, vertigini, nausea che, tuttavia, nel caso dei pazienti in oggetto, sono scomparsi nel giro di un paio di giorni. In alcuni pazienti, invece, sono stati diagnosticati ulteriori effetti negativi: perdita del gusto, problemi di deambulazione, stato confusionale, tutti svaniti nell’arco di qualche settimana.

Quanto durano gli effetti positivi degli ultrasuoni?.

Rebecca Lalchan, neurologa e specialista in disturbi del movimento presso il NYU Langone Hospital di Brooklyn: “L’utilizzo degli ultrasuoni ad alta frequenza per irradiare calore a una parte del cervello coinvolta nel morbo di Parkinson crea una lesione permanente che interrompe la segnalazione e migliora il movimento nei pazienti con malattia di Parkinson”. Tuttavia “Non è chiaro per quanto tempo i benefici potrebbero durare dopo il completamento del trattamento”, ha affermato il dottor Jean-Philippe Langevin, neurochirurgo presso il Providence Saint John’s Health Center in California. “Questo è un nuovo modo di trattare la malattia di Parkinson, quindi non è del tutto certo se i pazienti continuino a beneficiare del trattamento diversi anni dopo averlo completato. Questi dati sono ancora in fase di raccolta e studio”.

Gli ultrasuoni non sono la cura definitiva per il Parkinson.

“È importante notare che si tratta di un trattamento avanzato che non ha lo scopo di trattare la malattia di Parkinson precoce e non è una cura”, precisa il Dottor Alessandro Di Rocco, neurologo del Lennox Hill Hospital di New York. “Gli ultrasuoni mirati possono essere presi in considerazione quando altri trattamenti, come i farmaci e le terapie sullo stile di vita, non funzionano più”. Senza contare che non tutti i pazienti sono adatti a ricevere questa tipologia di trattamento. Ad esempio, coloro che hanno avuto un ictus o un danno cerebrale probabilmente non saranno i candidati ideali per la somministrazione di un trattamento a ultrasuoni contro il Parkinson.

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Sclerosi multipla, il ruolo delle cellule staminali in uno studio tutto italiano

Una sperimentazione scientifica iniziata all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano nel 2017 ha visto per la prima volta al mondo l’iniezione di cellule staminalI neurali in un paziente affetto da sclerosi multipla progressiva. I risultati di questo studio, chiamato STEMS e coordinato dal prof. Gianvito Martino, sono stati pubblicati in questi giorni dalla rivista Nature Medicine.

Sclerosi multipla: recidivante-remittente vs multipla progressiva.

La sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR) è la forma più diffusa di sclerosi multipla. Diagnosticata nell’85% dei casi di sclerosi, la SMRR si caratterizza per l’alternanza di episodi acuti ed altri di momentanea tranquillità per il paziente. La sclerosi multipla progressiva si distingue in “primariamente progressiva” (SM-PP) e “secondariamente progressiva” (SM-SP). La SM-PP si manifesta fin da subito in un peggioramento delle funzioni neurologiche e colpisce circa il 15% delle persone affette da sclerosi multipla. La SM-SP è l’evoluzione della SMRR, in cui la disabilità dell’individuo si fa persistente e tende ad aumentare nel corso del tempo.

Lo studio STEMS.

La ricerca condotta dal San Raffaele ha applicato al campione di pazienti una terapia sperimentale fondata sull’uso di cellule staminali neurali cioè del cervello. Ad ogni paziente è stata iniettata un’infusione di queste cellule tramite puntura lombare per veicolarle direttamente nel liquido cerebrospinale affinché raggiungessero velocemente cervello e midollo spinale, le aree colpite dalla sclerosi multipla. Le cellule staminali neurali sono cellule cosiddette progenitrici perché capaci di specializzarsi in qualsiasi tipo di cellula nervosa. Nelle sperimentazioni su animali è stato rilevato che queste cellule, dopo essere state trapiantate, raggiungono le lesioni cerebrali e midollari proprio perché diventano funzionali ad un eventuale danno cellulare. A quel punto, nella sede lesa, attivano meccanismi di protezione e riparazione cellulare.

I risultati dello studio STEMS.

Ciò che hanno dimostrato i ricercatori italiani è che le cellule staminali neurali possono rallentare la progressione di una sclerosi multipla in fase progressiva. È stata riscontrata una riduzione dell’atrofia cerebrale dei pazienti trattati e una rigenerazione delle cellule nelle aree colpite dalla malattia. Tuttavia questi risultati richiedono ulteriori conferme attraverso studi che coinvolgano campioni più ampi di pazienti. Solo così si potrà procedere ad un uso clinico della sperimentazione. Le cellule staminali neurali rappresentano una terapia innovativa e promettente per la cura di una patologia così complessa e variegata come la sclerosi multipla, nella quale i meccanismi che innescano la progressiva disabilità dell’individuo possono essere i più diversi (dall’infiammazione alla neurodegenerazione).

Cellule staminali neurali: la terapia del futuro?.

“È un traguardo importante quello raggiunto, anche se rappresenta solo la prima tappa del percorso clinico-sperimentale che porta ad una vera e propria terapia. Il mio primo pensiero va, soprattutto, alle persone malate e alle loro famiglie che hanno sostenuto la nostra ricerca in tutti questi anni, certo drammatici dal punto di vista della sanità pubblica, con pazienza, speranza, dedizione e sacrificio. Non saremmo arrivati fin qui senza il loro contributo. La strada intrapresa è però ancora lunga”, afferma Gianvito Martino. “Il fine ultimo, che è la grande sfida che abbiamo deciso di affrontare 20 anni fa, è quello di sviluppare una terapia innovativa ed efficace per le persone con forme progressive di sclerosi multipla che hanno, ad oggi, opzioni terapeutiche limitate”, conclude il professor Martino.