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“Il talento è maschio”: indagine su un irriducibile stereotipo di genere

Gli uomini? Per definizione, sono più talentuosi e brillanti delle donne. In uno studio su scala internazionale pubblicato da Science si indaga su questa categoria di stereotipi e sul loro rapporto con altre discriminazioni di genere. I ricercatori hanno somministrato un sondaggio sul tema a 500 mila studenti in 72 paesi del mondo. Quello che hanno rilevato è che uno stesso stereotipo di genere, l’associazione “uomo = persona di talento”, non ha confini geografici né culturali. È transnazionale. Tuttavia tale specifico stereotipo è più forte nei paesi avanzati e si accompagna ad altri pregiudizi inerenti la competitività, la fiducia in se stessi e la disponibilità a lavorare in settori tecnologico-informatici.

Secondo questo studio, le differenze di genere che vedono gli uomini protagonisti assoluti in fatto di competitività, autostima e Information Technologies, a fronte della totale (o quasi) assenza delle donne sulla scena, pare siano legate proprio allo stereotipo sul talento maschile. Nel loro insieme, simili stereotipi di genere sarebbero alla base del fenomeno (o fenomenologia) del soffitto di cristallo, ovvero barriere di carattere sociale, culturale, psicologico apparentemente invisibili (di qui l’analogia con il cristallo), che di fatto ostacolano l’affermazione di pari diritti e opportunità di carriera a categorie sociali storicamente discriminate per ragioni razziali o sessuali.

Nonostante tutte le statistiche confermino che le donne siano maggiormente istruite degli uomini e che abbiano conquistato il 40% del mercato del lavoro nei paesi OCSE, il soffitto di cristallo resta un ostacolo inscalfibile e alcuni campi di studio e di lavoro, associati a salari più cospicui, restano appannaggio degli uomini. All’interno di determinati settori le donne restano sottorappresentate: nell’Unione Europea solo il 23.3% dei consiglieri delle principali società quotate in borsa e il 5,1% degli amministratori delegati sono donne. Il problema del soffitto di cristallo è una questione di diritti, di uguaglianza ma anche di efficienza di determinati settori che limitano la varietà di intelligenze e di talenti.

Alcuni studiosi hanno coniato l’espressione “genialità di genere”, tipica di quei settori in cui sono richieste ottime doti intellettuali ma in cui sono, fatalità, sempre gli uomini quelli a brillare, a differenza delle donne. Lo stereotipo della “genialità di genere” non riguarda soltanto donne e uomini adulti ma perfino bambine e bambini. Esistono studi che dimostrano come i genitori tendano a considerare più intelligenti i figli maschi delle femmine; altri mostrano come il disegno più comune fatto da bambini a cui è stato chiesto di disegnare una persona intelligente è la rappresentazione di un uomo adulto, impegnato in attività mentali-cognitive.

Lo stereotipo secondo cui le ragazze sono meno talentuose dei ragazzi è più diffuso nei paesi sviluppati ed egualitari. Sembra un paradosso, poiché proprio a partire dai quadri legislativi dei paesi avanzati, le ragazze hanno diritto a raggiungere gli stessi obiettivi professionali dei maschi, per esempio. Di fatto, però, non è così. Lo stereotipo secondo cui le donne hanno meno talento degli uomini, infatti, può minarne l’autostima, tanto che tenderanno ad assumere comportamenti autoprotettivi, evitando situazioni e opportunità difficili. Le loro scelte ricadranno su percorsi di studio e professioni in cui il successo non è percepito come indicatore di particolari abilità. Ecco che allora nei paesi in cui le ragazze credono di avere meno talento dei ragazzi, le carriere più prestigiose o competitive saranno presidiate prevalentemente da uomini.

E in caso di fallimento? Secondo questo ampio corpo di studi, gli stereotipi del talento di genere prevedono che gli uomini falliscano perché sfortunati, per cause esterne o comunque lontane dalle loro specifiche capacità e talenti. Tutt’altra storia quella dei fallimenti delle donne: sono coerenti con le aspettative di genere e saranno attributi da loro stesse e dagli altri alla loro mancanza di talento innato. L’esposizione a stereotipi culturali sulle capacità intellettuali e sul talento delle ragazze porta i ragazzi e le ragazze a sviluppare atteggiamenti e preferenze che altrimenti non avrebbero potuto avere. Questi messaggi socio-culturali limitano inutilmente i comportamenti, le preferenze e le opzioni di carriera. Gli stereotipi sul talento di genere possono in realtà ferire anche i ragazzi. Per esempio può portarli a fare troppo affidamento sul talento e sull’apprendimento rapido, a sottovalutare il ruolo dello sforzo, del sacrificio, rispetto alle capacità nello svolgimento di compiti particolari, a disprezzare lo studio duro e approfondito e ad abbandonare la scuola in caso di fallimento.

Sul piano politico, sostengono i ricercatori, occorre cercare di sopprimere il mito della genialità, del talento innato e della creatività come dote naturale e di genere.

Viceversa, bisognerebbe trasmettere il messaggio che il talento si costruisce attraverso l’apprendimento e lo sforzo, grazie a prove ed errori, e che non è qualcosa di innato e immutabile. Bisogna sviluppare una mentalità di crescita e vedere il cosiddetto successo come il risultato di questi processi piuttosto che come la diretta conseguenza di capacità fisse e intrinseche con cui si è presumibilmente nati. Basterebbe, per cominciare, essere più cauti quando si descrivono coetanei, bambini o studenti come creativi o brillanti, poiché già li si sta, in una certa misura, potenzialmente pregiudicando. Esporre ragazze e ragazzi a modelli di ruolo femminili di successo potrebbe incoraggiare a una maggiore apertura mentale, a un più articolato e lungimirante percorso di crescita personale e sociale, traendo ispirazione da quegli stessi modelli per infrangere i soffitti di cristallo che i giovani, prima o poi, incontreranno nella loro vita.

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Vecchiaia e salute: gli anziani che hanno un cane si ammalano di meno

Va da sé che simili benefici non derivino dalla mera proprietà dell’animale bensì da una vita attiva condotta insieme a lui. A riportarlo è un recente articolo pubblicato su New Scientist e dedicato ai risultati di una ricerca scientifica su questo tema. La ricercatrice Yu Taniguchi insieme al suo gruppo di lavoro del National Institute for Environmental Studies di Tsukuba, in Giappone, ha chiesto a circa 11.000 persone fra i 65 e gli 84 anni se avessero un cane o un gatto o se l’avessero avuto in passato. Raccolti questi dati, dal 2016 al 2020 gli studiosi hanno monitorato l’emergere di anomalie cognitive e fisiche nei partecipanti.

Coloro che facevano una qualche attività fisica insieme al cane, per esempio la consueta passeggiata giornaliera o almeno un’attività motoria più di una volta a settimana, dimezzavano le probabilità di sviluppare patologie, contrariamente a chi un cane non lo aveva mai posseduto. Lo studio ha perfino scoperto che coloro che attualmente non erano proprietari di un cane, ma che in passato lo erano stati, presentavano un rischio di ammalarsi inferiore di circa il 10% rispetto a chi non aveva mai avuto un cane.

Benefici sia per gli umani che per i cani.

Pure i cani traggono benefici di salute dalle passeggiate e dalle attività fisiche svolte insieme al padrone. Basti pensare che, secondo un sondaggio del 2019 dell’ente benefico veterinario People’s Dispensary for Sick Animals, nel Regno Unito circa il 13% dei cani non viene portato fuori a camminare, correre o a fare i bisogni quotidiani. I cani sedentari e inattivi hanno alte probabilità di sviluppare importanti forme di obesità e svariati altri problemi di salute, sia fisici che mentali.

E i proprietari di gatti?.

Secondo questo studio, sia gli attuali proprietari sia quelli che lo sono stati in passato dimostrano le stesse probabilità di sviluppare disabilità cognitive/fisiche di coloro che non hanno mai avuto un piccolo felino. Lo studio è però andato oltre al rapporto cane-padrone e ai vantaggi che ne derivano. Uno degli obiettivi dei ricercatori era infatti anche quello di verificare se l’essere proprietari di un cane favorisse la socializzazione e i rapporti interpersonali. Un dato, questo, già collegato da precedenti studi al miglioramento dello stato di salute delle persone.

Effetti sulla socialità individuale.

Gli studiosi non hanno riscontrato alcun aumento delle interazioni sociali nei proprietari di cani a contatto con i vicini di casa o con altre persone, magari incontrate durante le passeggiate, al parco, mentre uscivano a spasso con il quadrupede. Probabilmente la compagnia di un amico a quattro zampe appaga quanto basta la vita di coloro che hanno scarsi rapporti sociali perché, a modo suo, l’animale domestico compensa eventuali vuoti ed assenze umani.

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Primavera, come prevenire i disturbi del cambio di stagione?

L’arrivo della primavera rappresenta uno dei cambi di stagione più insidiosi dell’anno. Se da un lato l’umore migliora con i primi giorni di sole, dall’altro il fisico fatica a gestire il cambiamento, portando spesso nervosismo e insonnia. Questo perché, specie nelle prime settimane, il clima è molto variabile e spesso ci trova impreparati in un periodo in cui si tende a passare più tempo all’aperto. Il passaggio repentino da giornate calde e soleggiate a giornate piovose, umide e fredde impedisce al fisico di adattarsi e così si presentano facilmente diversi disturbi da raffreddamento, come raffreddore e mal di gola. E non è solo il classico colpo di freddo a mettere l’organismo a dura prova, ma anche il rischio di sudare se, al contrario, ci si copre troppo e il clima è più caldo del previsto. La prima regola è quindi quella di vestirsi a strati e tenersi pronti a qualsiasi cambio climatico improvviso.

Vincere la stanchezza.

Il passaggio dall’inverno alla primavera, inoltre, provoca non di rado uno stato di profonda stanchezza, sia fisica sia mentale, una condizione che rende difficoltoso svolgere le normali attività quotidiane. Si tratta anche in questo caso di una conseguenza del cambiamento climatico a cui l’organismo non riesce ad abituarsi in modo immediato, necessitando tempi più lunghi. Lo stesso accade a causa dell’aumento delle ore di luce e del passaggio dall’ora solare a quella legale. Per sostenersi in questa fase di transizione è possibile assumere integratori specifici, a base di vitamine, sali minerali e aminoacidi, in grado sia di sopperire a eventuali carenze alimentari sia di ridare tono a mente e fisico. Sono disponibili anche diversi prodotti a base di sostanze naturali con proprietà toniche, come ginseng, pappa reale, polline, eleuterococco, lecitina di soia e olio di germe di grano. In caso si avverta la necessità di un aiuto per vincere la stanchezza, è quindi utile consultare il medico o il farmacista per scegliere l’integratore più appropriato alle proprie esigenze e al proprio stato di salute. Il consiglio di un professionista sanitario è sempre fondamentale nella scelta di questi prodotti che possono avere effetti indesiderati o interferire con altri farmaci assunti.

Affrontare le allergie primaverili.

Per un numero sempre crescente di persone primavera è anche sinonimo di allergie. In questa stagione, infatti, le fioriture di molte specie di piante portano al diffondersi dei pollini nell’aria, la cui concentrazione aumenta sensibilmente, causando attacchi allergici frequenti a chi soffre di allergie. Passando più tempo all’aria aperta, come in genere avviene nella bella stagione, l’esposizione a queste sostanze è molto più frequente e protratta nel tempo. Ma per gli allergici la permanenza nel verde può diventare insopportabile se compaiono i classici sintomi quali riniti, sternuti, lacrimazione e bruciore agli occhi e prurito. Evitare gli attacchi allergici non è semplice. Si possono verificare i calendari dei pollini per sapere quando ci sarà la maggior concentrazione dell’allergene a cui si è sensibili e cercare di evitare di stare all’aperto nelle giornate ventose e nelle ore più calde, quando la concentrazione dei pollini aumenta. Se però si verifica un attacco allergico e i sintomi creano disagio e malessere, è bene rivolgersi al medico o al farmacista, che potranno raccomandare l’uso di antistaminici o altri rimedi all’occorrenza.

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Il ruolo dei farmacisti nel supportare i pazienti nella gestione del diabete

Uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista scientifica “Frontiers in Pharmacology” ha sottolineato il ruolo cruciale che rivestono i farmacisti nell’aiutare i pazienti affetti da diabete nel seguire in maniera corretta il proprio trattamento farmacologico. Lo studio evidenzia in maniera chiara come sino ad ora studi simili si siano soffermati su quello che è l’influsso proficuo che la categoria dei farmacisti esercita sui pazienti interessati da diabete, senza però approfondire circa un aspetto determinante come quello relativo al concreto supporto che essi forniscono durante la fase di gestione delle cure da seguire.

Il contributo dei farmacisti.

Lo studio è stato portato avanti da ricercatori dell’Università di Groningen e del Netherlands Institute for Health Services Research, i quali hanno rielaborato i dati relativi agli studi simili che sono stati effettuati sino ad adesso focalizzando però la propria attenzione su quello che viene definito il “self-management”, cioè la capacità di auto gestire la patologia da parte del paziente che ne è affetto. L’attenzione dei ricercatori si è concentrata su 24 studi in particolar modo, i quali hanno interessato 3.610 pazienti in totale. Il contributo dei farmacisti ha riguardato per buona parte indicazioni fornite per quel che riguarda potenziali problematiche legate al diabete come pure pareri farmacologici, nonché suggerimenti circa lo stile di vita più indicato e corretto.

I valori rilevati in farmacia.

I ricercatori hanno così focalizzato la propria attenzione su quelli che sono stati i risultati relativi alle terapie che i pazienti hanno seguito, registrando gli effetti positivi di cui si è avvantaggiato chi ha usufruito del supporto di un farmacista. I dati rilevati vanno quindi ad evidenziare il concreto contributo che questi può offrire nell’aiutare a seguire correttamente la terapia, in particolar modo per quanto concerne il livello di emoglobina glicata. Le farmacie italiane in particolar modo, si sono inoltre attivate non soltanto per fornire un valore aggiunto a quanti sono interessati da diabete e seguono il relativo trattamento farmacologico, ma anche per rivestire allo stesso tempo un ruolo determinante in fase di prevenzione. Ad esempio in occasione della campagna DiaDay, una iniziativa per lo screening nazionale del diabete, sono stati scoperti oltre 4.000 casi di diabete non diagnosticato.

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Mangiare una ciotola di rucola al giorno abbassa la pressione

«L’erucina, principio attivo contenuto nella rucola (ma anche nel broccolo e nel cavolo, che fanno parte insieme alla rucola della famiglia delle Brassicacee o crucifere), è un profarmaco capace di rilasciare acido solfidrico, gas dal caratteristico odore di uova marce, lo stesso che, per intenderci, ritroviamo in alcune sorgenti termali e che già i Romani sfruttavano per le sue proprietà benefiche. L’organismo è in grado di produrre acido solfidrico autonomamente ma in alcune situazioni patologiche, come ad esempio l’ipertensione arteriosa, esso risulta carente ed è pertanto necessario assumerlo da fonti esterne». È quanto si legge in una nota della Società italiana di farmacologia (Sif), la quale ha reso noto che tale principio attivo «ha un duplice effetto sul sistema cardiovascolare: da una parte induce la dilatazione dei vasi sanguigni abbassando la pressione arteriosa, dall’altra ha proprietà antiossidanti, quindi protegge la parete dei vasi sanguigni dai fenomeni ossidativi dell’invecchiamento».

Studio cinese e australiano.

Ebbene, secondo quanto evidenziano i ricercatori, «uno studio cinese e uno australiano hanno verificato i parametri cardiovascolari generali su pazienti che erano soliti mangiare rucola, broccolo o cavolo, evidenziando una riduzione significativa delle morti per cause cardiovascolari. Rispetto a cavoli e broccoli, va detto che la rucola ha un vantaggio: dal momento che viene consumata cruda, preserva intatto il principio attivo dal deterioramento conseguente alla cottura, cosa a cui cavoli e broccoli vanno inevitabilmente incontro, trattandosi di verdure che vengono mangiate cotte».

Erucina studiata da più di 10 anni.

Alma Martelli, professoressa associata di Farmacologia presso il dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa e membro della Società Italiana di Farmacologia ha spiegato che «studiamo l’erucina da più di 10 anni prima attraverso test in vitro, poi su colture di cellule umane provenienti dalla parete dell’aorta e dell’endotelio, poi sui vasi isolati degli animali e, infine, su animale integro sano e iperteso. Attualmente, grazie alla collaborazione con il dipartimento di medicina interna dell’Università di Pisa, stiamo studiando gli effetti dell’erucina sui vasi umani di pazienti obesi, prelevati durante gli interventi di chirurgia bariatrica. Dopo questa fase, si passerà alla sperimentazione clinica con somministrazione, quindi, di erucina ai pazienti. I dati ottenuti finora sono molto promettenti, ma mancano ancora dati su un numero significativo di pazienti». Ciò sebbene l’erucina «non per tutti quelli che soffrono di ipertensione, però, è indicato assumere rucola attenzione se si assume warfarin (Coumadin) o si soffre di problemi alla tiroide».