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Riduzione della massa muscolare: il ruolo della vitamina C nel prevenirla

In uno studio pubblicato lo scorso luglio sulla rivista scientifica The Journal of Nutritioni ricercatori di prestigiose università inglesi hanno sottolineato il ruolo chiave della vitamina C, o acido ascorbico, nella salvaguardia della funzionalità del muscolo scheletrico. È noto che la perdita di massa muscolare scheletrica legata all’età acceleri i processi che portano a disabilità fisica, fragilità e, indirettamente, ad un aumento della mortalità. In particolare, la sarcopenia è una condizione caratterizzata dalla perdita progressiva della massa e della forza muscolari, associata all’invecchiamento dell’organismo. Il mantenimento di forza e funzione muscolari è essenziale per prevenire numerosi disturbi metabolici, tra cui un alterato utilizzo di aminoacidi, glucosio e acidi grassi, predisponente all’obesità e al diabete di tipo 2.

L’eziologia della sarcopenia è multifattoriale. Alla perdita di massa muscolare scheletrica contribuiscono cause di natura endocrina, produzione di radicali liberi, aumento di sostanze proinfiammatorie, immobilità, basso apporto di proteine. La vitamina C, introdotta consumando frutta e verdura, svolge molteplici funzioni nel metabolismo e nella fisiologia del muscolo scheletrico, che potrebbero scongiurare la perdita del tessuto dovuta al passare degli anni. I meccanismi in cui è coinvolto l’acido ascorbico includono la sintesi di collagene, un componente strutturale fondamentale di cellule muscolari e tendini, e di carnitina, aminoacido che interviene nel metabolismo degli acidi grassi durante lo svolgimento di attività fisica. La vitamina C, dall’azione antiossidante, è inoltre in grado di ridurre il danno a carico delle cellule muscolari provocato dai radicali liberi e la concentrazione di molecole promotrici di infiammazione che si ritrovano nel circolo sanguigno.

Prima dello studio in oggetto, la rilevanza della vitamina C per la muscolatura scheletrica non era stata considerata in studi epidemiologici che valutassero sia l’apporto dietetico che la concentrazione plasmatica in entrambi i sessi e in soggetti sia di mezza età che di età avanzata. Nel corso dello studio sono quindi state esaminate le associazioni tra l’introito di vitamina C, i suoi livelli plasmatici e la massa magra. I partecipanti, 13000 uomini e donne del Regno Unito di età compresa tra i 42 e gli 82 anni, hanno registrato su diari alimentari settimanali tutti i cibi e le bevande consumati. Le informazioni ricavate sono state convertite in quantità di nutrienti attraverso l’impiego di un software specifico. Per ogni soggetto sono stati misurati altezza e peso; campioni di sangue sono stati prelevati ai fini di rilevare la concentrazione sierica della vitamina. Sono state prese in considerazione variabili biologiche, come età, stato menopausale, eventuale terapia ormonale sostitutiva, utilizzo di corticosteroidi o statine, variabili legate allo stile di vita, quali fumo, classe sociale, attività fisica, e variabili dietetiche, per esempio l’energia totale e l’apporto di proteine provenienti dalla dieta.

In generale, la prevalenza di deficit di vitamina C era maggiore negli uomini e negli individui con basso reddito. Dallo studio è emerso che circa il 60% della popolazione considerata consumava quantità insufficienti di vitamina C. I risultati hanno mostrato associazioni positive significative tra apporto dietetico di vitamina C e mantenimento della massa magra. È necessario indagare ulteriormente gli effetti a lungo termine sul muscolo scheletrico di un aumento dell’apporto della vitamina, introdotta con l’alimentazione o sotto forma di integratori.

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L’8 settembre 2020 è la Giornata mondiale della fisioterapia

Il fisioterapista è un professionista sanitario, in possesso di specifica laurea, che si occupa tra le altre cose di prevenzione e recupero dagli infortuni, riabilitazione motoria, rieducazione posturale, gestione e controllo del dolore. Si interessa quindi di salute e benessere della persona e cerca di migliorarne la qualità della vita, a tutte le età. Ogni anno, l’8 settembre si tiene la giornata mondiale della fisioterapia, istituita nel 1996 dalla World confederation for physical therapy (Wcpt), associazione che oggi è composta da circa 670.000 fisioterapisti che lavorano in 122 paesi diversi. Negli anni, questa giornata è divenuta occasione sempre più importante di dialogo e confronto tra cittadini e professionisti del settore, arricchendosi di iniziative, proposte e visibilità. La Giornata mondiale della fisioterapia è un momento per sensibilizzare i cittadini riguardo i benefici e l’importanza del ruolo del fisioterapista, non solo in ottica di cura ma anche e soprattutto di prevenzione.

Per l’edizione 2020 dell’evento, lo slogan scelto dall’Associazione Italiana Fisioterapisti (Aifi) è «Fisioterapia e la vita si rimette in movimento». Mauro Tavernelli, presidente nazionale dell’AIFI, sottolinea che il claim, volutamente molto breve e diretto, ha lo scopo di mettere al centro dell’attenzione l’assistito e l’importanza del ruolo del fisioterapista come figura indispensabile per permettere il ritorno ad una vita piena e soddisfacente. Tavernelli aggiunge inoltre che per il 2020 l’attenzione sarà rivolta principalmente alla riabilitazione dopo il Covid-19 e al ruolo dei fisioterapisti nella gestione di pazienti affetti da coronavirus. Il fisioterapista infatti si colloca in una posizione di primaria importanza anche nei riguardi di tale sfida, cercando di aiutare le persone più vulnerabili a riguadagnare indipendenza e qualità di vita.

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Un’aspirina al giorno per proteggere il cuore? Dipende dal peso

Un’aspirina al giorno a basso dosaggio è ampiamente raccomandata per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, ma l’approccio standard “una dose uguale per tutti” potrebbe non funzionare. Una nuova analisi pubblicata sulla prestigiosa rivista The Lancet ha esaminato i dati di 10 studi randomizzati, per un totale di più di 117 mila partecipanti, e ha rilevato che c’è una correlazione tra dosaggio dell’aspirina e peso e altezza corporei, con effetti significativi sul risultato della terapia, che deve quindi adeguata alle caratteristiche e le necessità dei singoli pazienti.

I ricercatori del National Institute for Health Research Oxford Biomedical Research Centre hanno infatti scoperto che una dose giornaliera da 75 a 100 milligrammi di aspirina riduce il rischio di eventi cardiovascolari nei pazienti che pesano meno di 70 kg, ma non ha alcun effetto nell’80 % degli uomini e nel 50% delle donne che hanno un peso superiore, anzi in questi aumenta il rischio di un evento cardiovascolare fatale. Mentre dosi più elevate – da 325 a 500 milligrammi al giorno – hanno mostrato un’interazione inversa con il peso e l’altezza, risultando efficaci nell’abbassare il rischio cardiovascolare solo nelle persone che pesavano più di 70 kg.

Questi risultati si riscontrano negli uomini e nelle donne, nei pazienti con diabete e nella prevenzione secondaria dell’ictus. Nell’ambito dello stesso studio, sono stati anche analizzati gli effetti dell’aspirina rispetto ad altri esiti come il cancro, e si è palesata anche in questo caso la medesima correlazione con le dimensioni corporee. Il farmaco a basso dosaggio ha ridotto il rischio a lungo termine di tumore del colon-retto in persone di peso inferiore a 70 kg, ma non in quelle che superano quel peso, mentre un alto dosaggio ha ridotto il rischio di cancro nelle persone tra i 70 e gli 80kg, ma non in quelle più pesanti. Inoltre, l’ulteriore stratificazione dei pazienti ha rivelato danni causati dall’eccessibo dosaggio, con aumento del rischio a breve termine di cancro nei partecipanti con peso e statura bassi di età uguale o superiore a 70 anni.

Per converso, si è potuto osservare una notevole riduzione degli eventi cardiovascolari e morte per tutte le cause quando la dose di aspirina somministrata era adeguata al peso, e ciò suggerisce che esiste una finestra terapeutica correlata alle dimensioni corporee all’interno della quale una dose giornaliera di aspirina è davvero efficace, e bisogna dunque usare strategie personalizzate per sfruttarla al meglio.

‹‹Ci sono un miliardo di persone in tutto il mondo che assumono l’aspirina regolarmente e ogni studio randomizzato si basa sulla stessa dose uguale per tutti i pazienti. Potremmo aver sbagliato in questo, dovremmo adattare il dosaggio all’individuo, come facciamo con altri farmaci››, ha ammesso Peter M. Rothwell, autore principale dello studio e professore di neurologia all’Università di Oxford.

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Caffeina in gravidanza? Studio conferma: «Meglio evitarla»

La caffeina è la sostanza psicoattiva più largamente consumata. Tra i consumatori anche le donne in stato di gravidanza: l’82% delle donne incinte statunitensi e il 91% di quelle francesi ha dichiarato di assumere quotidianamente caffeina. Jack James, psicologo dell’università di Reykjavik, in Islanda, ha effettuato una rassegna della letteratura che esaminava i danni sul nascituro provocati dalla caffeina introdotta dalla madre. Le autorità sanitarie, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), sono generalmente concordi nel consigliare alle gestanti di limitare l’apporto giornaliero a 200 mg, l’equivalente di circa due tazze di caffè moderatamente forte. Ciononostante, la conoscenza della farmacologia della caffeina suggerisce potenziali danni fetali causati dal consumo materno della sostanza. La caffeina è infatti in grado di attraversare rapidamente la barriera placentare, esponendo il feto a concentrazioni simili a quelle che si ritrovano nel sangue della madre.

Il consumo abituale di caffeina determina una dipendenza fisica, con le manifestazioni di una vera e propria crisi d’astinenza a seguito della diminuzione della sua assunzione anche di soli 100 mg al giorno, caratterizzate da sonnolenza, letargia e cefalea. La sostanza è classificata come “droga d’abuso” e nei bambini nati da madri che l’avevano consumata nel corso della gravidanza sono stati osservati sonno disturbato, vomito, battito cardiaco e respirazione irregolari e tremore fine, sintomi simili a quelli della sindrome di astinenza neonatale da narcotici.

Come fonti letterarie James ha consultato i database di PubMed e Google Scholar, associando i termini relativi a risvolti negativi della gravidanza con la parola “caffeina” o i nomi di prodotti che la contengono, come caffè, tè e bevande energetiche. Dalla ricerca sono emersi 1261 articoli in lingua inglese pubblicati nei due decenni passati, di cui, scartando quelli doppi e considerando solo quelli scientificamente rilevanti, ne sono stati analizzati 48. Gli effetti negativi sulla gravidanza sono stati raggruppati all’interno di 6 categorie principali: aborto spontaneo, natimortalità, cioè numero dei nati morti, basso peso alla nascita e/o per età gestazionale, parto pretermine, leucemia acuta nell’infanzia e sovrappeso e obesità infantili.

Dagli studi presi in considerazione è emerso in maniera quasi unanime il riconoscimento dell’associazione tra consumo di caffeina da parte della madre e quattro delle categorie sopracitate: aborto, natimortalità, basso peso alla nascita e leucemia acuta. Non è stata identificata alcuna analisi che suggerisse l’esistenza di un legame significativo tra consumo materno di caffeina e sovrappeso e obesità infantili. James ha concluso la sua pubblicazione sostenendo che le attuali raccomandazioni sul consumo di caffeina in gravidanza da parte delle autorità esperte in materia necessitino di una revisione radicale. In particolare, le prove scientifiche a disposizione non supporterebbero il presupposto che il consumo “moderato” della sostanza sia sicuro: secondo l’autore sarebbe bene che le donne incinte e che desiderano una gravidanza evitassero del tutto la caffeina.

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Una scarsa igiene può aggravare la diffusione di batteri resistenti agli antibiotici

In che modo l’interazione tra scarsa igiene e uso di antibiotici contribuisce alla colonizzazione dei batteri resistenti agli antimicrobici (Amr) negli esseri umani? A questa domanda hanno provato a rispondere i ricercatori della Paul G. Allen School for Global Animal Health (Allen School) e dell’Universidad del Vale de Guatemala (UVG) della Washington State University, i quali hanno portato a termine uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports. Come è noto, infatti, la resistenza agli antibiotici è un grave fenomeno che contribuisce a centinaia di migliaia di morti ogni anno. Si tratta di un problema che vede l’incapacità degli antibiotici di funzionare correttamente a causa delle resistenze appunto generate da specifici batteri che, per essere debellati, richiedono dunque antibiotici sempre più potenti.

Osservando le famiglie nelle comunità guatemalteche rurali e urbane i ricercatori hanno esaminato come la distribuzione di Escherichia coli resistente agli antimicrobici fosse correlata alla densità della popolazione, all’accesso alle terapie antibiotiche, ai servizi igienico-sanitari e agli indicatori di igiene come l’accesso all’acqua pulita e la prevalenza della defecazione aperta e la preparazione del cibo e pratiche di consumo di latte. I risultati dello studio hanno confermato che la resistenza antimicrobica era associata a una crescente frequenza di uso di antibiotici, scarsa igiene domestica, consumo di latte ed episodi di diarrea.

«Una migliore gestione degli antibiotici, compreso il controllo dell’accesso non regolamentato agli antibiotici è fondamentale per ridurre la prevalenza di batteri resistenti agli antimicrobici, ma la sola amministrazione non avrà un impatto con successo sulla prevalenza della resistenza quando l’igiene è compromessa», sostengono gli autori dello studio.