Aumento del 70 percento del rischio di sviluppare carcinoma dell’endometrio, del 58 percento per carcinoma a cellule renali maschili, del 29 per cento per il cancro al colon maschile ed infine del 15 percento per tutti i tumori correlati all’obesità (entrambi i sessi). Sono i dati rilevati da alcuni ricercatori norvegesi dell’Università di Bergen che hanno voluto scoprire in che modo il sovrappeso adulto con indice di massa corporea oltre 25 e l’obesità con indice di massa corporea oltre 30 aumentano il rischio di diversi tipi di cancro. Nello studio, i ricercatori hanno incluso gli adulti con due o più misurazioni, ottenute a distanza di almeno tre anni e prima di una possibile diagnosi di cancro. In media, gli individui sono stati seguiti per circa 18 anni.
Ebbene, i ricercatori hanno dimostrato che i partecipanti obesi, con indice di massa corporea oltre 30, al primo e al secondo esame di salute avevano il più alto rischio di sviluppare un tumore correlato all’obesità, rispetto ai partecipanti con un Indice di massa corporea normale. «L’obesità – evidenzia Tone Bjørge, docente presso il Dipartimento di sanità pubblica e cure primarie globali dell’Università di Bergen – è un fattore di rischio stabilito per diversi tumori. In questo studio, ci siamo concentrati sul grado, i tempi e la durata del sovrappeso e dell’obesità in relazione al rischio di cancro». Nello studio in oggetto, spiega Bjørge, «il rischio è aumentato del 64% per i partecipanti di sesso maschile e del 48% per le donne». Dunque, «il nostro messaggio chiave è che prevenire l’aumento di peso può essere un’importante strategia di salute pubblica per ridurre il rischio di cancro».
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
La carenza di vitamina D nella terza infanzia potrebbe provocare comportamenti aggressivi e stati d’animo ansiosi e depressivi durante l’adolescenza. È quanto rilevato da un nuovo studio dell’Università del Michigan, effettuato sui bambini delle scuole a Bogotá, in Colombia. Nello specifico, gli studiosi hanno evidenziato che i bambini con livelli di vitamina D nel sangue indicativi di carenza avevano quasi il doppio delle probabilità di sviluppare problemi di comportamento esternalizzanti – comportamenti aggressivi e di violazione delle regole – come riportato dai loro genitori, rispetto ai bambini che avevano livelli più alti di vitamina. Inoltre, bassi livelli di proteine che trasportano la vitamina D nel sangue erano correlati a comportamenti aggressivi più autosufficienti e sintomi ansiosi / depressi. Le associazioni erano indipendenti dalle caratteristiche del bambino, dei genitori e della famiglia.
Nel 2006 i ricercatori hanno reclutato 3.202 bambini di età compresa tra 5 e 12 anni, attraverso una selezione casuale di scuole pubbliche primarie, ottenendo informazioni sulle abitudini quotidiane dei bambini, il livello di istruzione materna, il peso e l’altezza, nonché l’insicurezza alimentare e lo stato socioeconomico della famiglia. Inoltre, gli studiosi hanno anche prelevato campioni di sangue. Dopo circa sei anni, quando i bambini avevano 11-18 anni, gli investigatori hanno condotto interviste di follow-up di persona in un gruppo casuale di un terzo dei partecipanti, valutando il comportamento dei bambini attraverso questionari che venivano somministrati ai bambini stessi e i loro genitori. Le analisi sulla vitamina D includevano 273 di questi partecipanti. Mentre gli autori riconoscono i limiti dello studio, inclusa la mancanza di misure comportamentali di base, i loro risultati indicano la necessità di ulteriori studi che coinvolgono esiti neurocomportamentali in altre popolazioni in cui la carenza di vitamina D può essere un problema di salute pubblica.
«Ancora oggi troppi operatori sanitari e troppi pazienti considerano, per mancanza di una corretta informazione, gli equivalenti farmaci inferiori a quelli di riferimento in termini di efficacia clinica, tollerabilità e, addirittura, di qualità. Ciò – evidenzia la sigla -, ovviamente, è del tutto falso». È quanto messo in luce dalla Società italiana di farmacologia in un documento indirizzato ad operatori sanitari e pazienti. Nel dettaglio, «l’esperienza nell’uso clinico quotidiano, i dati provenienti dalla letteratura scientifica, la qualità dei percorsi autorizzativi e dei controlli da parte delle autorità regolatorie deve rassicurare sanitari e pazienti sulla loro sovrapponibilità in termini di qualità, efficacia e sicurezza».
Tuttavia, si legge nella nota, «numerosi studi retrospettivi hanno invece chiaramente indicato che la sostituzione multipla da un generico all’altro può aumentare il rischio di errori e ridurre l’aderenza alla terapia. Esistono particolari popolazioni di pazienti per le quali occorre mettere in atto misure per limitare il rischio di errori nell’assunzione dei farmaci e per favorire l’aderenza alla terapia prescritta dal medico. Evidenze scientifiche indicano che i pazienti anziani politrattati (ovvero coloro che prendono più farmaci, ndr) sono tra le popolazioni a maggiore rischio di errore nell’assunzione dei farmaci e suggeriscono che in questi pazienti dispensare sempre lo stesso farmaco, equivalente o non, contribuisce a migliorare l’aderenza terapeutica».
La Sif inoltre evidenzia il significato della terminologia. Nello specifico che «i farmaci equivalenti, chiamati comunemente generici, sono farmaci di uso consolidato, essendo in uso clinico da almeno due decenniı. La crescente disponibilità di nuovi equivalenti dipende dalla durata della copertura brevettuale dei farmaci di riferimento (i così detti “farmaci di marca”); alla scadenza del brevetto è infatti possibile chiederne l’autorizzazione alla commercializzazione come equivalenti a seguito di procedure ben codificate».
Potrebbe avere i giorni contati l’immissione in commercio in Europa di un nuovo dispositivo medico utilizzato per il trattamento dell’ipoglicemia grave. Il Comitato per i medicinali per uso umano (Chmp) dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) ha infatti reso noto di aver concesso una raccomandazione favorevole per il rilascio all’autorizzazione all’immissione in commercio, da parte dell’Unione europea, del nuovo dispositivo Baqsimi, a base di glucagone. Il medicinale consentirebbe il trattamento dell’ipoglicemia grave senza iniezione ai pazienti affetti da diabete, a partire da quattro anni di età. Come è noto, l’ipoglicemia grave è una condizione che si verifica nei soggetti diabetici quando il livello di zucchero nel sangue scende al punto tale da generare uno stato confusionale, fino a rendere la persona completamente incosciente, al punto da richiedere con urgenza l’assistenza per somministrare il medicinale. Se non trattata, infatti, l’ipoglicemia grave può portare a gravi conseguenze, come convulsioni, coma, esiti avversi cardiovascolari e persino la morte.
Allo stato attuale, un modo per contrastare l’ipoglicemia grave, che può verificarsi verosimilmente in caso di somministrazione errata del dovuto quantitativo di insulina, è quello di iniettare il glucagone. Tuttavia, l’iniezione di glucagone spesso richiede un addestramento in quanto deve essere preparato in più fasi prima di poter essere somministrato al paziente mediante iniezione sottocutanea o intramuscolare. Ciò nonostante, esistono in commercio kit di emergenza che il paziente può usare per autoiniettarsi ma che tuttavia richiedono comunque un’iniezione. Il nuovo dispositivo che si spera possa in futuro facilitare la vita a numerosi pazienti, se autorizzato sarà commercializzato sotto forma di un dispenser monouso pronto per essere somministrato attraverso il naso. I pazienti non avranno bisogno di inalare o respirare profondamente dopo la somministrazione, consentendo l’assunzione del farmaco anche in pazienti incoscienti.
L’elevato stress quotidiano può indurre gli individui a rivolgersi all’uso di Facebook come strategia di coping, con i sintomi della depressione che fungono da moderatore di questa associazione. È quanto rilevato in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Cyberpsychology, Behaviour e Social Networking”, i cui ricercatori hanno dimostrato una stretta associazione positiva tra stress quotidiano, sintomi di depressione e Disturbo da dipendenza da Facebook (FAD).
I ricercatori hanno studiato una popolazione di studenti in Germania e un campione di individui prevalentemente impiegati negli Stati Uniti, per ampliare la rilevanza dei loro risultati. Nel dettaglio, gli studiosi hanno rilevato che, mentre le persone con livelli più alti di sintomi depressivi che tendono a sentirsi più sopraffatte dalla vita quotidiana possano avere un certo miglioramento dell’umore utilizzando l’uso di Facebook a breve termine, a lungo termine aumenta il rischio di sviluppare Disturbo da dipendenza da Facebook, incidendo negativamente sul benessere.