Gli avvertimenti stampati sulle singole sigarette potrebbero svolgere un ruolo chiave nel ridurre il fumo. È quanto sostiene una nuova ricerca portata a termine dall’Università di Stirling, in Scozia. Come è noto, le passate normative di diversi paesi europei e mondiali hanno imposto l’apposizione di immagini di soggetti malati sui pacchetti di sigarette, al fine di scoraggiare al vizio del fumo. Gli esperti dell’Istituto di marketing sociale di Stirling hanno esaminato le percezioni dei fumatori sull’avvertimento “Il fumo uccide” stampato sulle singole sigarette, al contrario del messaggio che appare solo sui pacchetti. Il gruppo di studiosi, guidato da Crawford Moodie, ha scoperto che i fumatori ritengono che l’approccio innovativo abbia il potenziale per scoraggiare il fumo tra i giovani, coloro che iniziano a fumare e i non fumatori.
I partecipanti allo studio hanno ritenuto che l’avvertimento su una sigaretta avrebbe prolungato il loro messaggio di allerta come se visto da un pacchetto, acceso, lasciato in un posacenere e con ogni estrazione, rendendo così più difficile il comportamento da evitare. La visibilità dell’avvertimento per gli altri era percepita come scoraggiante per alcuni perché era associata a un’immagine negativa. All’interno di numerosi gruppi femminili, gli avvertimenti erano considerati deprimenti, preoccupanti e spaventosi. La stampa delle avvertenze su ogni singola sigaretta potrebbe essere una soluzione ulteriore da implementare, sebbene la disassuefazione dal vizio del fumo potrebbe comunque richiedere un intervento multidisciplinare, che comprenda il supporto del proprio medico curante o del farmacista di fiducia.
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
I livelli di lipoproteine a bassa densità (Ldl), ovvero il colesterolo comunemente chiamato “cattivo”, devono essere abbassati il più possibile per prevenire le malattie cardiovascolari, specialmente nei pazienti ad alto e altissimo rischio. È quanto indicato nelle Linee guida della European Society of Cardiology (Esc) e della European Atherosclerosis Society (EAS) per le dislipidemie, pubblicate sulla rivista scientifica European Heart Journal e sul sito web della stessa Esc, in occasione del congresso annuale della cardiologia svoltosi a Parigi dal 31 agosto al 4 settembre 2019, che ha riunito esperti da tutto il mondo.
Le malattie cardiovascolari sono responsabili di oltre quattro milioni di decessi in Europa ogni anno. Le arterie ostruite sono il principale tipo di malattia. Le linee guida forniscono consigli su come modificare i livelli lipidici nel sangue attraverso lo stile di vita e uso di farmaci per ridurre il rischio di malattie aterosclerotiche. Ad oggi, non esiste un limite inferiore di colesterolo Ldl noto per essere pericoloso. Per questo motivo, le linee guida mirano a garantire che i farmaci disponibili (statine, ezetimibe, inibitori del PCSK9) siano utilizzati nel modo più efficace possibile a livelli più bassi in quelli a rischio. A tal proposito, gli esperti raccomandano i pazienti raggiungano sia il livello target di colesterolo Ldl, sia una riduzione relativa minima del 50%.
Per favorire tale riduzione vengono usate principalmente le statine, le quali, seppur ben tollerate, in alcuni casi sviluppano una serie di effetti collaterali, tra cui aumento del rischio di diabete e miopatia. Tuttavia, le statine non sono raccomandate nelle donne in pre-menopausa che considerano una gravidanza o che non usano una contraccezione adeguata. Quanto all’uso di prodotti alternativi, gli esperti raccomandano «integratori di olio di pesce, in combinazione con una statina, per i pazienti con ipertrigliceridemia nonostante il trattamento con statine. In questi pazienti, gli integratori riducono di circa un quarto il rischio di eventi aterosclerotici, inclusi infarto e ictus». Inoltre, evidenziano gli esperti, «le persone dovrebbero essere incoraggiate ad adottare e sostenere uno stile di vita sano». Nello specifico, una dieta sana, l’eliminazione del fumo di sigaretta e l’esercizio fisico regolare.
«La fisioterapia nel mondo tra ricerca e innovazione», è questo il titolo al centro della Giornata mondiale della fisioterapia che sarà celebrata domenica 8 settembre 2019. La giornata, spiega l’Associazione italiana fisioterapisti (Aifi) «è un’opportunità in tutto il mondo per sensibilizzare il cittadino circa il fondamentale contributo che il fisioterapista può dare per la salute delle persone». Il fisioterapista, come ricorda la stessa Aifi, «è un professionista della sanità in possesso del diploma di laurea o titolo equipollente, che lavora, sia in collaborazione con il medico e le altre professioni sanitarie, sia autonomamente, in rapporto con la persona assistita, valutando e trattando le disfunzioni presenti nelle aeree della motricità, delle funzioni corticali superiori e viscerali conseguenti ad eventi patologici, a varia eziologia, congenita o acquisita». È utile ricordare, a tal proposito, che il fisioterapista ha l’obbligo di iscrizione all’Ordine dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione.
In occasione della ricorrenza dell’8 settembre numerose farmacie sul territorio ospiteranno al loro interno dei fisioterapisti con l’obiettivo di fornire informazioni utili ai pazienti «sul tema del dolore cronico – si legge sul sito dell’Aifi – e sul ruolo che la fisioterapia e l’attività fisica possono avere nell’aiutare le persone a gestire il dolore cronico». Perché nelle farmacie? La legge 69/2009, cosiddetta “Farmacia dei servizi”, prevede che nelle farmacie opportunamente organizzate e con spazi adeguati, possano operare infermieri e fisioterapisti, nell’esercizio delle loro rispettive funzioni. In tal modo diverse farmacie pubbliche e private territoriali possono erogare al loro bacino di utenza di riferimento servizi a valore aggiunto, sebbene non rimborsati dal Ssn.
I ricercatori dell’Università di Lancaster, dell’Università di Bamberga e dell’Università Friedrich-Alexander di Erlangen-Norimberga, hanno scoperto che gli utenti che cercavano distrazione all’interno della piattaforma di Facebook come meccanismo per far fronte allo stress causato dalla stessa piattaforma, piuttosto che spegnere e intraprendere un’altra attività, erano maggiormente influenzati dall’utilizzo di tale strumento. Come è noto, Facebook e Instagram possono causare diversi stress agli utenti, noti come “technostress” dai social media. Tuttavia, di fronte a tale stress, invece di spegnere tali dispositivi o usarli di meno, le persone si spostano da una piattaforma all’alta, peggiorando ulteriormente la fase di stress.
Lo studio in oggetto ha analizzato le abitudini di 444 utenti di Facebook, social network più diffuso, evidenziando che tali persone sarebbero passate da attività come chattare con gli amici, leggere feed di notizie e pubblicare aggiornamenti sul loro profilo, dal momento in cui avevano sviluppato stress per l’uso della piattaforma. Ciò portando ad una maggiore probabilità di dipendenza dalla tecnologia, poiché utilizzavano i vari elementi della piattaforma in un arco di tempo maggiore. Anche quando gli utenti sono stressati dall’uso dei social media, usano le stesse piattaforme per far fronte a tale stress, deviandosi attraverso altre attività sui social e, in definitiva, costruendo comportamenti compulsivi ed eccessivi. Di conseguenza, utilizzano ulteriormente i social network ambiente piuttosto che allontanarsi da esso, e si forma una dipendenza.
Sulla base di quanto evidenziato, gli esperti suggeriscono di imitare l’uso dei social quanto più possibile. Proprio come si sono adoperati diversi giovani in Trentino Alto Adige i quali – secondo quanto riportato dal giornale online “l’Adige” – con l’obiettivo di «costruire connessioni tra montagna e città in maniera moderna», ma anche «aiutare i giovani a disintossicarsi dalla digitalizzazione quotidiana per recuperare la concentrazione e l’interesse verso l’ambiente montano», hanno raggruppato 20 studenti e giovani lavoratori trentini (18-30 anni) e 30 studenti dell’Università degli studi Milano-Bicocca, i quali a fine agosto hanno preso parte ad un innovativo campo estivo a contatto con la natura.
Passare almeno 120 minuti a settimana nella natura può favorire lo sviluppo di una buona salute e di benessere. Non è solo un modo di dire ma il risultato di un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica “Nature”. Il lavoro, dal titolo «Spending at least 120 minutes a week in nature is associated with good health and wellbeing», ha esaminato in che modo in che modo il contatto settimanale con la natura può influenzare la salute e benessere degli individui. Nello studio pubblicato sono stati monitorati 19.806 volontari e osservato il loro contatto settimanale con spazi verdi, riscontrando che per coloro che passavano un tempo pari a 120 minuti a settimana nel verde venivano riportati migliore salute e benessere. Secondo quanto rilevato dai ricercatori, inoltre, le associazioni positive tra ambiente e salute hanno raggiunto un picco in coloro che trascorrevano tra i 200 e i 300 minuti del tempo settimanale in un’area verde.
Come è noto, diversi studi in passato hanno dimostrato che una maggiore esposizione o contatto con ambienti naturali, tra cui parchi, boschi e spiagge, è associata a una migliore salute e benessere. Ciò tra le popolazioni ad alto reddito, in gran parte urbanizzate. Vivere in aree urbane più verdi è associato a minori probabilità di malattie cardiovascolari, obesità, diabete, ricovero in ospedale per asma, distress mentale ed infine mortalità tra gli adulti. Nello studio portato a termine i ricercatori hanno compreso meglio le relazioni tra il tempo trascorso in natura a settimana e la salute personale e il benessere soggettivo. La crescente evidenza di un’associazione positiva tra il contatto con gli ambienti naturali e la salute e il benessere ha portato a richieste per una migliore comprensione di eventuali relazioni esposizione-risposta. L’esposizione è stata definita in termini di minuti riportati in ambienti naturali per attività ricreative negli ultimi sette giorni; e i risultati erano la salute auto-segnalata e il benessere soggettivo.
Ne consegue che, alla luce di quanto evidenziato dai ricercatori, trascorrere quanto più tempo possibile a contatto con la natura, influenza positivamente la salute ed il benessere fisico e mentale.