L’inattività fisica, il fumo, l’ipertensione, il diabete e il colesterolo alto svolgono un ruolo primario rispetto alla genetica nei giovani pazienti con malattie cardiache. È quanto afferma una ricerca presentata nel corso del congresso annuale della Società europea di cardiologia, svolto a Parigi dal 31 agosto al 4 settembre 2019. Secondo quanto emerso dai risultati dello studio, avere comportamenti sani dovrebbe essere una priorità assoluta per ridurre le malattie cardiache anche in coloro con una storia familiare di esordio precoce. Nel corso dello studio sono stati valutati cinque fattori di rischio modificabili. Tra questi inattività fisica, fumo, ipertensione, diabete e colesterolo alto. Quasi i tre quarti (73%) dei pazienti presentavano almeno tre di questi fattori di rischio rispetto al 31% dei soggetti sani. In entrambi i gruppi, la probabilità di sviluppare malattie cardiache premature è aumentata in modo esponenziale con ogni fattore di rischio aggiuntivo.
Ai partecipanti è stato analizzato anche il corredo genetico, sebbene abbia influito in minore percentuale rispetto alle cause primarie legate agli stili di vita. «I risultati – spiega Joao A. Sousa, dell’ospedale di Funchal, in Portogallo – dimostrano che la genetica contribuisce alla malattie cardiache premature. Tuttavia, nei pazienti con due o più fattori di rischio cardiovascolare modificabili, la genetica gioca un ruolo meno decisivo nello sviluppo della malattie cardiache premature». Ne consegue che, alla luce di quanto evidenziato, «lo studio fornisce una forte prova del fatto che le persone con una storia familiare di malattie cardiache premature dovrebbero adottare stili di vita sani, dal momento che i loro comportamenti scorretti possono contribuire maggiormente alle malattie cardiache rispetto alla loro genetica. Ciò significa che smettere di fumare, esercitare regolarmente dieta sana e controllo della pressione arteriosa e dei livelli di colesterolo».
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Il servizio informativo per i pazienti del centro “L’Incontro” a Teano (CE).
Ottima vacanza, festa fantastica, bambini adorabili, cibo incredibile: ognuno mostra la propria vita sotto la luce migliore sui social network. Coloro che si guardano intorno su tali siti possono scoprire che la loro autostima è un successo poiché sembra che tutti siano meglio di loro. Tuttavia, secondo quanto scoperto da un team di psicologi della Ruhr-Universität, a Bochum, in Germania, guidato dal Dr. Phillip Ozimek, gli utenti che utilizzano passivamente i social network, cioè che non pubblicano contenuti e che non tendono a confrontarsi con gli altri, sono in pericolo di sviluppare sintomi depressivi. Per giungere a tele conclusione i ricercatori hanno condotto uno studio sperimentale e due questionari.
Ebbene, gli studiosi hanno scoperto che esiste una correlazione tra l’uso passivo di Facebook e i sintomi depressivi quando i soggetti hanno un bisogno crescente di fare confronti sociali delle loro capacità. «Quindi – spiega Phillip Ozimek, principale autore dello studio – quando ho un forte bisogno di confrontare e continuare a vedere nel mio feed delle notizie che altre persone stanno facendo grandi vacanze, facendo grandi affari e acquistando cose fantastiche e costose mentre tutto ciò che vedo fuori dalla finestra del mio ufficio è grigio e coperto, abbassa la mia autostima». Inoltre, «se provo questo giorno dopo giorno, ancora e ancora, questo può promuovere maggiori tendenze depressive a lungo termine». Ne consegue che, poiché la bassa autostima è strettamente correlata ai sintomi depressivi, i ricercatori considerano anche questo effetto a breve termine una potenziale fonte di pericolo.
Uno studio condotto su quasi 1,7 milioni di ragazzi di 18 anni ha rilevato che un indice di massa corporea più elevato è associato a un rischio maggiore di infarto prima dei 65 anni. È quanto presentato durante il congresso della Società europea di cardiologia, svolto a Parigi in concomitanza al Congresso mondiale di cardiologia, dal 31 agosto al 4 settembre 2019. Lo studio ha incluso tutti gli uomini svedesi nati tra il 1950 e il 1987 e arruolati per il servizio militare obbligatorio all’età di 18 anni. Durante l’arruolamento, tutti i 1.668.921 uomini sono stati sottoposti a ampi esami fisici e psicologici, come indice di massa corporea, pressione sanguigna, quoziente intellettivo e test cardiovascolari e idoneità muscolare. Gli uomini sono stati seguiti tra il 1969 e il 2016 per un follow-up massimo di 46 anni. Registri di pazienti e decessi svedesi sono stati usati per registrare quanti hanno avuto un infarto fatale o non fatale più tardi nella vita.
Ebbene, dai dati analizzati è emerso che ci sono stati 22.412 attacchi di cuore che si sono verificati a un’età media di 50 (età massima 64). L’aumento dell’indice di massa corporea nei giovani di 18 anni era associato a un elevato rischio di infarto prima dei 65 anni, anche dopo aggiustamento per età, anno di coscrizione, comorbilità al basale, educazione parentale, pressione sanguigna, quoziente intellettivo, forza muscolare ed infine fitness. «Mostriamo che l’indice di massa corporea nei giovani è un marcatore di rischio straordinariamente forte che persiste durante la vita». È quanto spiega Maria Aberg, autrice principale dello studio, dell’Università di Göteborg, Svezia. Secondo la ricercatrice «il nostro studio supporta un attento monitoraggio dell’indice di massa corporea durante la pubertà e la prevenzione dell’obesità con un’alimentazione sana e fisica attività. Scuole e genitori – conclude Aberg – possono fare la loro parte incoraggiando gli adolescenti a trascorrere meno tempo libero davanti a uno schermo e fornendo cibo sano».
Gli esseri umani sono costantemente in contatto con numerosi agenti chimici, condizioni meteorologiche e altre esposizioni derivate da ciò che ci circonda e dalle abitudini quotidiane. Sia all’esterno, che negli ambienti domestici, sono centinaia le possibilità di entrare in contatto con sostanze che possono intaccare la nostra salute. Per monitorare le interazioni tra ambiente e sostanze inquinanti, uno studio pubblicato sul Journal of American College of Cardiology ha analizzato gli effetti di 200 esposizioni ambientali durante la gravidanza e l’infanzia, giungendo alla conclusione che alcune delle esposizioni ambientali potrebbero avere un impatto sulla pressione sanguigna nei bambini.
Nello specifico, lo studio condotto sui dati provenienti da sei diversi paesi europei, Spagna, Francia, Grecia, Lituania, Norvegia e Regno Unito, ha analizzato un totale di 1.277 bambini e le loro madri. Le esposizioni agli agenti inquinanti sono state valutate durante la gravidanza e quando i bambini avevano un’età compresa tra i 6 e gli 11 anni. Durante il periodo di analisi, i ricercatori hanno valutato un totale di 89 esposizioni prenatali e 128 postnatali, raggruppandole in tre categorie. Si tratta di: esposizioni esterne (inquinamento atmosferico, condizioni meteorologiche, spazi verdi, ecc.), sostanze chimiche (pesticidi, metalli, plastificanti, ecc.) ed infine fattori di stile di vita (dieta, attività fisica, schemi di sonno, ecc.).
Ebbene, alla luce di quanto rilevato, l’analisi ha accertato un’associazione tra varie esposizioni e pressione sanguigna più alta nei bambini. Le esposizioni associate all’aumento della pressione sanguigna includevano l’esposizione al fumo di tabacco e al bisfenolo A (un plastificante) durante la gravidanza. Allo stesso modo, i bambini con concentrazioni sieriche più elevate di rame e acido perfluoroottanoico (PFOA, un composto usato in pentole e padelle antiaderenti, indumenti, ecc.) avevano una pressione sanguigna più alta.
Come è noto, il colesterolo è un grasso presente naturalmente in tutti i tessuti degli organismi animali e in modo particolare nel cervello, nella bile e nel sangue. Quantitativi fisiologici di colesterolo nell’organismo svolgono diverse funzioni tra cui la salvaguardia delle membrane cellulari, la costruzione della guaina dei nervi, la crescita e divisione cellulare ed infine nello sviluppo embrionale. Inoltre, il colesterolo consente di alimentare importanti funzioni metaboliche come la produzione di ormoni steroidei, vitamina D e acidi biliari. Il livello di colesterolo del sangue è chiamato colesterolemia. Tale valore, costituito da colesterolo totale, colesterolo Hdl – detto buono -, e colesterolo Ldl – detto cattivo-, se nella norma non rappresenta alcun rischio della salute. Tuttavia, qualora l’apporto di colesterolo alimentare contribuisca all’innalzamento di tale livello, esso può costituire un grave e fondamentale fattore di rischio per l’insorgenza e le complicanze delle malattie cardiovascolari.
A differenza di altri valori, gli elevati livelli di colesterolo nel sangue non manifestano alcun sintomo. Alla luce di ciò, soprattutto a causa degli stili di vita moderni costituiti dal cosiddetto “cibo spazzatura”, è possibile ritrovarsi a dover gestire valori elevati di colesterolo. Per poter agire in maniera preventiva è possibile consultare il proprio farmacista di fiducia e richiedere il controllo dei livelli di colesterolo mediante l’auto-analisi del sangue. In pratica, un modo oggi molto diffuso e validato per poter misurare i valori di colesterolo totale, ma anche Hdl e Ldl, prelevando solo alcune gocce di sangue dal polpastrello di un dito, al fine di conoscerne immediatamente il risultato. Ciò per prevenire in maniera consapevole l’insorgenza di eventi che possano compromettere la propria salute. Allo stesso modo, anche coloro che sono già consapevoli di avere livelli di colesterolo elevati e che stiano seguendo una terapia ipocolesterolemizzante, possono rivolgersi al proprio farmacista di fiducia effettuando tale controllo in pochi secondi.