EllaOne® è il farmaco a base del principio attivo Ulipristal Acetato 30 mg, contraccettivo d‘emergenza da assumersi entro 120 ore da un rapporto sessuale non protetto o dal fallimento di altro metodo contraccettivo.
Dall’inizio del 2015 ellaOne® è disponibile senza prescrizione medica. Tuttavia, sebbene ellaOne® riduca significativamente il rischio di gravidanza (da 5.5 a 0.9% se assunto entro le prime 24 ore, Glasier et al., 2010), non può prevenire tutte le gravidanze.
A tal proposito, come requisito obbligatorio richiesto dall’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) per la commercializzazione di ellaOne®, è stato predisposto il Registro delle Gravidanze, per facilitare la raccolta delle informazioni sulle gravidanze esposte per qualsiasi ragione a ellaOne®. Quando è stato assegnato a ellaOne® il regime di fornitura come medicinale non soggetto a prescrizione, EMA ha richiesto che l’utilizzo del Registro delle Gravidanze fosse proseguito ed esteso a tutti gli operatori sanitari che seguono le donne in gravidanza.
Ed infatti fino ad oggi, i dati raccolti attraverso questo registro delle gravidanze, insieme ai dati di vigilanza postmarketing, hanno consentito di registrare 1119 casi di gravidanze esposte ad ellaOne® (Period Safety Update Report n. 11 – Luglio 2017).
L’Agenzia Italiana del farmaco ricorda che tutti gli operatori sanitari (tra cui medico e farmacista), devono supportare l’iniziativa di monitoraggio dei casi di gravidanza in donne che hanno utilizzato ellaOne®, riportando i dati all’interno del registro dedicato al link www.hrapregnancy-registry.com .
Anche ai Centri per l’interruzione volontaria della gravidanza, l’AIFA invita a richiedere a ogni donna in gravidanza se ha fatto uso di contraccezione d’emergenza ed in caso affermativo, di identificare precisamente con quale farmaco.
L’AIFA ricorda che ogni donna che abbia inavvertitamente assunto ellaOne® durante la gravidanza o sia rimasta incinta nonostante l’assunzione di ellaOne® può direttamente segnalare le informazioni di sicurezza attraverso il sito Web predisposto. Per accedere al questionario on-line da compilare, è possibile collegarsi al sito: www.hra-pregnancy-registry.com, selezionare la propria lingua dal menu a tendina sulla parte destra dello schermo ed infine seguire le istruzioni.
Le donne potenzialmente interessate alla problematica che non hanno la possibilità di eseguire la procedura online, possono rivolgersi al proprio medico curante, al medico specialista o al farmacista di fiducia per poter effettuare questa comunicazione e contribuire alla segnalazione.
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Il servizio informativo per i pazienti del centro “L’Incontro” a Teano (CE).
Circa un quarto della popolazione lamenta intolleranze ambientali a sostanze chimiche, campi elettromagnetici (EMFs) e suoni. Le persone che soffrono di intolleranze ambientali manifestano molti segni clinici, uno di questi è relativo ai disturbi del sonno. I disturbi del sonno sono presenti in gran parte della popolazione, tuttavia non è ben chiaro se sono appannaggio esclusivo di coloro che soffrono di intolleranza ambientale oppure anche di individui che non soffrono di disturbi legati alla presenza di sostanze chimiche e campi elettromagnetici.
A tal proposito, è stato svolto uno studio dal titolo “Sleep and sleepiness in environmental intolerances: a population- based study”, pubblicato sulla rivista scientifica “Sleep Medicine” edita da Elsevier. Lo studio ha preso in esame un campione composto da 3406 individui di età compresa tra i 18 e i 79 anni, nel nord della Svezia, che dichiaravano di soffrire di scarsa qualità del sonno, sonno non rigenerante, sonnolenza diurna, respirazione ostruttiva e insonnia notturna.
Ebbene, è stato visto che coloro che erano esposti a sostanze chimiche, campi elettromagnetici e suoni, avevano una qualità del sonno peggiore rispetto a coloro che non soffrivano di intolleranza ambientale.
E’ stato visto quindi che i disturbi del sonno e la sonnolenza notturna sono più comuni in coloro che hanno sintomi legati all’intolleranza ambientale. Pertanto, l’insonnia notturna è di per se, un sintomo importante legato alla possibile presenza di un’intolleranza ambientale.
E’ bene sottolineare che non ha senso quindi intervenire nel trattamento dei sui disturbi del sonno se non si conosce esattamente la causa che li genera. Solo l’allontanamento o la riduzione della causa scatenante, potrebbe essere risolutiva ai fini del miglioramento della qualità del sonno.
Tra i modi per ridurre il rischio di cancro, ricordati dall’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro, facente parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ricordiamo quello di non fumare, di non consumare nessuna forma di tabacco. Rendere libera la casa dal fumo, compreso il posto di lavoro. Attivarsi per mantenere un peso sano. Svolgere attività fisica ogni giorno, limitando il tempo da seduti.
Con riferimento all’alimentazione, l’Agenzia ricorda di seguire una dieta sana a base di molti e vari cereali integrali, legumi, frutta e verdura. Limitare cibi ad elevato contenuto calorico (alimenti ricchi di grassi), evitando bevande zuccherate. Evitare quindi carni conservate (insaccati), limitare il consumo di carni rosse ed alimenti ad elevato contenuto di sale.
Con riferimento alle bevande alcoliche di qualsiasi tipo, limitarne il consumo, meglio evitare di berli.
Evitare l’eccessiva esposizione al sole, soprattutto per i bambini, usando protezioni solari ed evitare lettini abbronzanti.
Osservare scrupolosamente tutte le istruzioni inmateria di salute e sicurezza sul posto di lavoro per proteggerti dall’esposizione ad agenti cancerogeni noti.
Accertarsi di non essere esposti a concentrazioni elevate di radon presenti in casa. In caso di livelli alti, fare in modo di ridurne i livelli.
Con riferimento alle donne, ricordare che l’allattamento al seno riduce il rischio di cancro per la madre. Se possibile, allatta il bambino al seno. Inoltre, ricordare che la terapia ormonale sostitutiva (TOS) aumenta il rischio di alcuni tipi di cancro: limitare quindi l’uso della TOS.
Assicurarsi che i figli partecipino ai programmi di vaccinazione contro l’epatite B (per i neonati) e il papillomavirus umano (HPV) (per le ragazze.
Infine, partecipare a programmi organizzati di screening per il cancro dell’intestino (uomini e donne), del seno (donne), del collo dell’utero (donne).
Una ricerca dell’Istituto Europeo di Oncologia, sostenuta dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, ha messo a fuoco di una proteina chiave nel controllo del tumore ovarico, anche nella sua forma più aggressiva, refrattaria alle terapie e purtroppo più diffusa, il tipo “sieroso di alto grado”.
I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Stem Cell Reports.
La proteina CD73 è un fattore determinante delle cellule staminali cancerose (CSC), spiegano i ricercatori, guidati da Ugo Cavallaro, direttore dell’Unità di Ricerca in Ginecologia Oncologica.
Le cellule staminali cancerose CSC sono una piccola popolazione di cellule tumorali che non vengono colpite dai trattamenti chemio e radioterapici: anche nel caso di un’apparente buona risposta iniziale alla terapia, possono far ripartire il tumore, causando la cosiddetta ricaduta o recidiva. Sono considerate una sorta di benzina che alimenta il tumore. Nel caso del cancro ovarico la recidiva rappresenta il problema clinico più serio, in quanto molto spesso a questo punto la malattia è diventata resistente ai farmaci ed è quindi molto più difficile da trattare. Di conseguenza, capire meglio come agiscono le CSC e trovare il modo di inattivarle potrebbe fornire nuove possibilità di cura di questo tumore, soprattutto per prevenire le recidive.
Grazie alla localizzazione sulla superficie delle CSC, la proteina CD73 può essere un bersaglio terapeutico delle terapie molecolari contro il cancro dell’ovaio e potrebbe aprire la strada a nuove strategie terapeutiche contro le cellule staminali del cancro. Il dato più rilevante è stato ottenuto con esperimenti con un anticorpo che blocca il funzionamento di CD73.
I risultati sono stati ottenuti grazie al contributo fondamentale delle pazienti, attraverso il loro consenso a donare i tessuti per la ricerca. I ricercatori dell’IEO hanno messo a punto una serie di metodi per identificare e studiare le CSC ottenute da campioni chirurgici di tumore ovarico. Questo ha reso possibile effettuare un’analisi delle CSC presenti nei tessuti malati e confrontare i risultati con l’analisi delle staminali dei tessuti sani.
Ma c’è un altro aspetto che rende CD73 ancora più promettente per le terapie anticancro. “Molti tumori, incluso quello ovarico – spiega Cavallaro – sarebbero in teoria attaccabili dal sistema immunitario dell’organismo. Il problema è che spesso il tumore sviluppa dei meccanismi di difesa che gli consentono di eludere l’attacco dell’immunità. L’immunoterapia, che sta ottenendo risultati insperati nella cura di alcune neoplasie, è nata proprio con l’obiettivo di inattivare i meccanismi di difesa dei tumori. Ebbene, CD73 rappresenta appunto uno di questi meccanismi, tanto è vero che al momento le aziende impegnate nello sviluppo di farmaci contro CD73 sono concentrate soprattutto sugli aspetti legati all’immunoterapia. In base ai nostri dati, quindi, usare CD73 come bersaglio terapeutico potrebbe bloccare le CSC e contemporaneamente riattivare la risposta immunitaria antitumorale. Al momento, tuttavia, si tratta solo di ipotesi che rimangono da verificare in modelli preclinici, nella speranza che si arrivi poi ad una sperimentazione clinica”.
Un recente studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Pharmacology, ha sottolineato il ruolo decisivo che rivestono i farmacisti nell’aiutare i pazienti affetti da diabete nel seguire in maniera corretta il proprio trattamento farmacologico. Lo studio evidenzia in maniera chiara come sino ad ora studi simili si siano soffermati su quello che è l’influsso proficuo che la categoria dei farmacisti esercita sui pazienti interessati da diabete, senza però approfondire circa un aspetto determinante come quello relativo al concreto supporto che essi forniscono durante la fase di gestione delle cure da seguire. Lo studio si chiama “Pharmacist-Led Self-management Interventions to Improve Diabetes Outcomes” ed è stato portato avanti dai ricercatori dell’università di Groningen e da quelli del Netherlands Institute for Health Services Research, i quali hanno rielaborato i dati relativi agli studi simili che sono stati effettuati sino ad adesso focalizzando però la propria attenzione su quello che viene definito il “self-management”, cioè la capacità di auto gestire la patologia da parte del paziente che ne è affetto. L’attenzione dei ricercatori si è concentrata su 24 studi in particolar modo, i quali hanno interessato 3.610 pazienti in totale. Il contributo dei farmacisti ha riguardato per buona parte indicazioni fornite per quel che riguarda potenziali problematiche legate al diabete come pure pareri farmacologici, nonché suggerimenti circa lo stile di vita più indicato e corretto. I ricercatori hanno così focalizzato la propria attenzione su quelli che sono stati i risultati relativi alle terapie che i pazienti hanno seguito, registrando gli effetti positivi di cui si è avvantaggiato chi ha usufruito del supporto di un farmacista. I dati rilevati vanno quindi ad evidenziare il concreto contributo che questi può offrire nell’aiutare a seguire correttamente la terapia, in particolar modo per quanto concerne il livello di emoglobina glicata. Le farmacie italiane in particolar modo, si sono inoltre attivate non soltanto per fornire un valore aggiunto a quanti sono interessati da diabete e seguono il relativo trattamento farmacologico, ma anche per rivestire allo stesso tempo un ruolo determinante in fase di prevenzione. Ad esempio in occasione della campagna DiaDay del Novembre 2017, una iniziativa per lo screening nazionale del diabete, sono stati scoperti oltre 4.000 casi di diabete non diagnosticato.