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I benefici sulla salute del sole di primavera

Avere una buona esposizione al sole può portare a una serie di vantaggi oltre a fornire un immediato miglioramento dell’umore. Tale attività è stata ricollegata ai diversi benefici per la salute, tra cui una riduzione del diabete di tipo 2, capacità di aiutare nella perdita di peso per prevenire l’obesità, ridurre dello sviluppo di alcuni tipi di cancro. A questi si aggiungono il miglioramento della protezione della vista attraverso una migliore salute degli occhi, l’abbassamento della pressione sanguigna e migliorare la qualità e la durata del sonno notturno. Rafforzare significativamente il sistema immunitario, aumentando i linfociti T (la prima linea di difesa del nostro organismo contro infezioni e malattie), è un altro dei benefici di un’esposizione regolare al sole di primavera.

Anche i bambini hanno bisogno di tempo per giocare all’aperto per migliorare il funzionamento mentale e la capacità di apprendimento. Gli adulti hanno bisogno del sole per migliorare la capacità di ridurre lo stress: elemento che contribuisce a migliorare l’umore e che solo il sole può fornire. Le raccomandazioni per l’esposizione al sole suggeriscono almeno quindici minuti al giorno e molto di più nei periodi invernali. Tuttavia, la primavera è arrivata: una dolce passeggiata al sole del mattino per un quarto d’ora ogni giorno farà miracoli per la salute, umore e benessere.

Nonostante i benefici, al di là degli ovvi impatti sulla salute di una sovraesposizione alla luce solare – come l’invecchiamento precoce della pelle e il rischio di scottature –, il cancro della pelle è un rischio significativo e sottorappresentato. Attualmente esiste un tasso di sopravvivenza per il cancro della pelle di oltre l’85%, il che significa che non è tutto disastroso anche se la malattia viene diagnosticata. La maggior parte delle persone continua a vivere una vita sana e felice, nonostante le precedenti scelte in termini di prendere troppo sole senza un’adeguata protezione. È utile dunque proteggersi nelle ore di punta e limitare l’esposizione in alcune delle ore centrali della giornata.

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Che cos’è un trauma?

La definizione di “trauma” è infatti una questione molto dibattuta, sia dalla comunità scientifica che dall’opinione pubblica. Quante volte diciamo che un evento ci ha traumatizzato? Tuttavia la medicina definisce “traumi” solo determinati eventi, a partire dai quali derivano specifici percorsi di cura. Partorire, fare un incidente stradale, subire una discriminazione razziale o di genere… Chi non definirebbe simili situazioni come traumatiche? La stessa pandemia da COVID-19 è stata classificata da diversi psicologici come un evento traumatico che ha minato la salute mentale (e non solo fisica) di molte persone, individuando casi di disturbo da stress post-traumatico in aumento.

Eppure la medicina ufficiale non qualifica queste esperienze come traumi. Coloro che hanno perso un parente malato di COVID-19 e coloro che lavorano negli ospedali e nelle case di cura potrebbero rientrare come casi ufficiali e riconosciuti di trauma. Invece la perdita del lavoro dovuta al COVID e l’isolamento sociale in lockdown, per esempio, esulano dalla definizione di trauma. George Bonanno, professore di psicologia clinica alla Columbia University di New York: “La gente ha definito la pandemia traumatica ma non lo è”. Secondo Bonanno siamo troppo propensi a vedere le cose come traumatiche, il più delle volte esagerando.

I suoi studi hanno dimostrato che, con il passare del tempo, la maggior parte di noi si riprenderà anche dalle esperienze più orribili e dolorose. Detto questo, sostiene Bonanno, il termine “trauma” ha ormai perso il suo significato scientifico originario, proprio per il suo abuso. “Le persone dicono di essere traumatizzate da cose relativamente banali”, dice Bonanno. Questo in effetti è un problema, perché se un numero sempre più alto di esperienze umane è classificato come “traumatico”, più persone soddisferanno i criteri per una diagnosi di disturbo da stress post traumatico.

Fra queste, alcune potrebbero ricevere un trattamento non necessario, magari a discapito di eventuali pazienti in lista d’attesa. Al contrario, altri studiosi ritengono che la definizione medica di trauma dovrebbe essere ufficialmente ampliata per assorbire una maggiore varietà di esperienze. Non si tratta soltanto di un dibattito linguistico-terminologico, viste le ricadute pratiche sulla vita delle persone e dei potenziali pazienti. In altre parole: ciò che definiamo trauma e le esperienze definite traumatiche determina se le persone saranno diagnosticate e curate inutilmente o meno per disturbi da stress post traumatico. Oppure, viceversa, se vivranno con sintomi che non verranno adeguatamente curati poiché non riconosciuti dalla medicina ufficiale come reali casi di trauma.

Per esempio, chi ha avuto un incidente stradale e riportato ferite lievi potrebbe sognare l’incidente, sussultare al suono di una frenata improvvisa, fino a smettere temporaneamente di guidare. Questi sintomi da stress post traumatico tendenzialmente svaniscono entro un mese dall’evento. Se così non fosse, la persona potrebbe essere sottoposta a cure specifiche per stress conseguente a eventi traumatici. Ma alla maggior parte delle persone tutto questo non accade: siamo molto più resilienti di quel che crediamo.

Il prof. Bonanno ha scoperto che perfino il modo in cui una persona pensa può migliorare le sue probabilità di guarigione. Si riferisce a una “mentalità flessibile”, un insieme di caratteristiche che tendono ad essere associate a risultati migliori. Nella sua ricerca, le persone generalmente fiduciose, ottimiste e preparate per le sfide, oltre a essere in grado di capire la loro situazione e a come migliorare la loro sorte, tendono a cavarsela meglio anche in situazioni riconducibili a traumi e disturbi da stress post traumatico.

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Bambini e insonnia: il decalogo dei pediatri

Anche i bambini soffrono d’insonnia. Se il problema interessa una persona su dieci dai sei anni fino all’adolescenza, nella fascia fino ai cinque anni, l’insonnia riguarda un bambino su cinque. E così, per favorire il riposo notturno, i pediatri della Società italiana di pediatria (Sip) hanno indicato dieci accorgimenti da seguire.

Per i bambini, rispettare l’orario della nanna tutte le sere. Abituare il piccolo sin dalla tenera età ad addormentarsi sempre alla stessa ora, adattando i ritmi della famiglia a quelli del bimbo e non viceversa. Le buone abitudini vanno mantenute e consolidate nella crescita, variandole in base all’età. Far dormire il bambino sempre nello stesso ambiente (che sia la sua cameretta o nei primi mesi quella dei genitori), con luci soffuse senza device accesi, ed eventualmente con una musica dolce e monotona di sottofondo, non facendolo addormentare in ambienti diversi, come sul divano.

Nei primi due o tre mesi di vita manca la fase di addormentamento, nel senso che non è possibile riconoscere con precisione quando il bambino sta crollando. In quelli successivi invece, appena si nota che il piccolo non succhia più con forza e chiude gli occhietti, si deve staccarlo dal seno e metterlo nel lettino. Rispettare l’orario dei pasti durante il giorno, adeguandosi ai ritmi del bambino. Mai usare il tablet o altri dispositivi elettronici dopo cena. Spegnere tutto almeno un’ora prima dell’addormentamento. La luce dei device, infatti, riduce la produzione di melatonina. Mantenere tutti gli apparecchi elettronici fuori dalla stanza da letto. Non dare troppo cibo o acqua prima di dormire.

Evitare il latte o altri liquidi compresa la camomilla durante i risvegli, preferire piuttosto l’utilizzo di un oggetto consolatorio, come il ciuccio. Regolare con attenzione l’esposizione alla luce. Per il sonnellino pomeridiano, mantenere la luce dell’ambiente e ridurre il più possibile l’esposizione durante la notte. Evitare sostanze eccitanti dopo le 16. No a tè, solo deteinato in caso, no a bevande contenti caffeina e no alla cioccolata. Favorire un’alimentazione equilibrata. Con un adeguato introito di liquidi durante il giorno. Preferire cibi con fibre e triptofano che è un precursore della melatonina, come carni bianche, pesce azzurro, verdure verdi, legumi e cereali. No ai bambini nel lettone. Abituarli all’autonomia vuol dire anche lasciarli dormire nel proprio ambiente. Nei casi di risveglio, riportarli sempre nel loro lettino. Un metodo che può funzionare è promettere un premio al bambino se non va nel letto dei genitori.

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Aderenza terapeutica, cosa è e come impatta sulla propria salute

La Giornata nazionale per l’Aderenza alla Terapia ricorre il 12 aprile di ogni anno. Secondo l’Aifa «per aderenza alla terapia si intende il conformarsi del paziente alle raccomandazioni del medico riguardo ai tempi, alle dosi e alla frequenza nell’assunzione del farmaco per l’intero ciclo di terapia». Per via di dinamiche riconducibili a varie tematiche «la scarsa aderenza alle prescrizioni del medico è la principale causa di non efficacia delle terapie farmacologiche ed è associata a un aumento degli interventi di assistenza sanitaria, della morbilità e della mortalità, rappresentando un danno sia per i pazienti che per il sistema sanitario e per la società».

La stessa Aifa ricorda che «maggior aderenza significa infatti minor rischio di ospedalizzazione, minori complicanze associate alla malattia, maggiore sicurezza ed efficacia dei trattamenti e riduzione dei costi per le terapie. Com’è ormai noto, la popolazione anziana è quella più a rischio sotto il profilo dell’aderenza alle terapie, specie in compresenza di più patologie. L’Italia è al secondo posto in Europa per indice di vecchiaia, con intuibili conseguenze sull’assistenza sanitaria a causa del numero elevato dei malati cronici. L’aderenza alle terapie è pertanto fondamentale per la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale».

Quali sono le strategie per migliorare l’aderenza terapeutica? La stessa Aifa sottolinea che «comprendono i programmi di auto-monitoraggio e auto-gestione dei medicinali, mentre sembrano promettenti i regimi semplificati di dosaggio e il coinvolgimento diretto dei farmacisti nella gestione dei farmaci. Altre strategie, come ad esempio le prescrizioni di antibiotici in ritardo, strumenti pratici (ad esempio confezioni pro-memoria); istruzioni o informazioni combinate con altre strategie (ad esempio, formazione di competenze di auto-gestione e consulenza) e incentivi finanziari possono avere anche alcuni effetti positivi, ma i dati a supporto sono meno consistenti».

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C’è relazione tra povertà e sviluppo del cervello dei bambini?

Si tratta di “Baby’s First Years”, il primo studio USA che valuta l’impatto della povertà nonché della sua riduzione sullo sviluppo cognitivo, emotivo e cerebrale di neonati e bambini. La domanda che i ricercatori si sono posti è stata proprio questa: esiste un rapporto causa-effetto tra ristrettezze economiche della famiglia di un bambino e il suo grado di sviluppo cerebrale? Un miglioramento delle condizioni economiche famigliari ha delle ripercussioni sulla crescita cognitiva ed emotiva del piccolo? Sempre più studi scientifici documentano come lo sviluppo mentale dei bambini a basso reddito sia diverso da quello dei bambini nati in famiglie a medio o alto reddito.

Lo status di benessere famigliare più elevato è associato a migliori prestazioni del bambino in termini di capacità di linguaggio, memoria, funzione esecutiva e relazioni socio-emotive. Il tutto è stato scientificamente verificato anche a livello neurale, nelle regioni cerebrali dei bambini esaminati. Parimenti, un ampio corpus di ricerche in scienze sociali ha riscontrato disparità di reddito tra bambini a basso o alto rendimento scolastico, nelle rispettive capacità di attenzione, nell’autodisciplina. Gli scienziati dello sviluppo tendono a confermare che la povertà plasmi i primi anni di sviluppo cognitivo dei bambini, data l’elevata plasticità e la rapida crescita del cervello nei primi mesi/anni di vita degli individui. Per testare questi risultati è stato però necessario approntare uno studio specifico su larga scala. Questa ricerca mira ad analizzare come un sostegno finanziario alle famiglie meno abbienti possa influenzare la funzione e lo sviluppo cerebrale di neonati e bambini in tenera età.

L’indagine, tuttora in corso, ha quindi confrontato un gruppo di famiglie con bambini a basso reddito con un altro alla pari ma che ha potuto beneficiare di donazioni mensili. Un migliaio di madri in stato di povertà e i loro neonati sono stati reclutati in comunità etnicamente e geograficamente diverse degli Stati Uniti. Le madri hanno ricevuto (e riceveranno fino alla fine dell’indagine) 333 dollari al mese oppure 20 dollari al mese per i primi 52 mesi di vita dei bambini. Per comprendere in che modo la riduzione della povertà influisca sullo sviluppo dei bambini e sulla vita familiare, i ricercatori raccoglieranno dati dal 1° al 4° compleanno di ciascun bambino coinvolto nell’esperimento.

Già oggi questa ricerca riporta sostanziali divergenze nello sviluppo cerebrale dei bambini di un anno le cui famiglie hanno ottenuto un sostegno economico rispetto a coloro che non l’hanno ricevuto. Gli studiosi seguiranno questi nuclei famigliari anche nei prossimi anni per determinare se le disparità osservate tra i due gruppi persisteranno ancora e se porteranno a successivi divari cognitivi e comportamentali.