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Antibiotici, l’Italia tra i paesi europei a maggior consumo

L’Agenzia italiana del farmaco, ente di controllo per la sicurezza dei farmaci, ha pubblicato il rapporto “L’uso degli antibiotici in Italia” contenente i dati di consumo degli antibiotici in Italia. Tali medicinali sono particolarmente importanti perché il loro maggior uso contribuisce negativamente al fenomeno dell’antibiotico-resistenza. Si tratta di una forma di difesa messa in atto da parte dei microrganismi che col tempo rendono inutilizzabile gli antibiotici, mettendo a serio rischio la salute di adulti e bambini. Secondo quanto evidenziato nel rapporto, sebbene vi sia una maggiore consapevolezza per l’uso ed un’assunzione più attenta di tali medicinali, vi sono ad oggi alcune Regioni d’Italia a maggior consumo. Tra queste, Puglia e Calabria.

Tra i farmaci più usati le pennicilline, che «hanno rappresentato la classe a maggior prevalenza d’uso, seguite dai macrolidi e dalle cefalosporine, antibiotici considerati di seconda scelta secondo le linee guida per il trattamento delle infezioni pediatriche più comuni».

In merito all’uso, l’Aifa evidenzia che «nelle regioni del Sud si è riscontrato un minor utilizzo dell’amoxicillina rispetto all’associazione amoxicillina/acido clavulanico, raccomandata nella popolazione pediatrica solo nei casi severi/complicati e recidivanti delle infezioni più frequenti (es. otiti)».

È utile ribadire che, alla luce di quanto evidenziato, assumere antibiotici senza la prescrizione del medico mette a rischio la propria saluta soprattutto nei casi in cui tali farmaci non abbiano più effetto per trattare infezioni sostenute da batteri sensibili. Per questo motivo, è sempre bene far riferimento al proprio medico curante, allo specialista, o al farmacista di fiducia, per chiedere informazioni utili alla problematica in atto o a tali tipi di farmaci.

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Malattie infiammatorie croniche intestinali: morbo di Crohn e colite ulcerosa

Il morbo di Crohn e la colite ulcerosa sono patologie infiammatorie croniche dell’intestino. Sono più comuni nei paesi industrializzati e si manifestano solitamente prima dei vent’anni. Si tratta delle più frequenti cause di dolore addominale ricorrente nella fascia di età compresa tra i 15 e i 25 anni, con una prevalenza leggermente superiore nel sesso femminile.

Le malattie in questione sono di natura idiopatica, cioè le cause non sono ancora state chiarite. Si ritiene che nella loro patogenesi concorrano diversi fattori, tra cui agenti infettivi e un’alterata risposta immunitaria. Quest’ultima ipotesi è suffragata dalla presenza nella sede del processo infiammatorio di linfociti, plasmacellule e mastociti, tutte cellule facenti parte del sistema immunitario. Inoltre, le due malattie si associano di frequente ad altre condizioni di immunocompromissione, per esempio a disordini di origine autoimmune come l’artrite reumatoide. Farmaci immunosoppressori o immunomodulatori consentono un miglioramento del quadro sintomatologico.

Tra i fattori di rischio ambientale, il fumo gioca un ruolo di primo piano, con l’esordio della malattia che può coincidere con l’inizio del tabagismo. Smettere di fumare purtroppo non porta alla remissione dei sintomi. Anche una dieta squilibrata, l’assunzione di alcol, il sovrappeso sono fattori predisponenti.

Il morbo di Crohn può interessare qualsiasi parte dell’apparato digerente, dalla bocca all’ano, ma solitamente sono coinvolti l’ileo terminale, cioè l’ultimo tratto dell’intestino tenue, e il colon destro o ascendente. I sintomi comprendono, oltre all’intenso dolore crampiforme all’addome, diarrea, calo ponderale e febbricola ricorrente.

La flogosi o infiammazione cronica può provocare fistole, vale a dire canali anomali di comunicazione che si creano tra due strutture anatomiche normalmente separate, per esempio entero-enteriche, retto-vescicali, retto-vaginali. Altre complicanze sono occlusioni e perforazioni intestinali e ascessi peritoneali. Sia il morbo di Crohn che la colite ulcerosa predispongono allo sviluppo di tumori intestinali.

La colite ulcerosa, a differenza del morbo di Crohn, colpisce in maniera esclusiva il colon e in particolare il tratto discendente. Se l’infiammazione è localizzata a livello rettale si parla di proctite. La principale complicanza della colite ulcerosa, come indica il nome stesso, è la formazione di ulcere. Il sangue nelle feci è uno dei tratti distintivi della malattia e le emorragie del retto possono portare a modificazioni dell’alvo, con alternanza di diarrea e costipazione.

Mentre nella colite ulcerosa l’infiammazione è limitata alla mucosa, nel morbo di Crohn si produce un’estesa lesione che attraversa lo spessore della parete intestinale, con edema, ridotta sintesi di muco, erosioni e ulcerazioni della mucosa. Sebbene non esista un trattamento curativo, si può intervenire con farmaci sintomatici che riducano lo stato infiammatorio, come la mesalazina o corticosteroidi. Nei casi più gravi può rendersi necessaria la resezione chirurgica dei tratti maggiormente colpiti e il drenaggio degli ascessi.

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Succo e gel di aloe, emollienti per intestino e cute

Il genere Aloe comprende centinaia di specie, la più nota delle quali è l’Aloe vera o barbadensis o vulgaris, diffuse nelle aree calde e secche.

L’aloe è una pianta grassa che può raggiungere i due metri di altezza, caratterizzata da foglie carnose e di grandi dimensioni dotate di spine.

Le preparazioni utilizzate in fitoterapia sono il succo e il gel, entrambi ottenuti dalle foglie. Il primo, dopo essere stato estratto dalle porzioni più esterne, viene concentrato per riscaldamento fino a ricavare una massa bruno-nerastra che, una volta raffreddata, assume un aspetto vetroso. Caratteristici sono l’odore pungente e il sapore fortemente amaro.

Il gel è una sostanza mucillaginosa che si ottiene per spremitura o estrazione e che viene poi purificata per eliminare gli antrachinoni, purganti in grado di provocare energiche contrazioni della muscolatura liscia dell’intestino. Oltre ad aumentare la peristalsi, i derivati antrachinonici agiscono richiamando acqua e sali.

Il succo ha un effetto purgante così marcato che generalmente non viene utilizzato da solo, ma in associazione ad altri estratti vegetali dall’azione lassativa più blanda in modo da diminuirne la dose. A causa del potere irritante, il succo di aloe va impiegato esclusivamente per trattare condizioni di stitichezza occasionale, anche per la capacità delle sostanze antrachinoniche contenute di dare assuefazione, con conseguente perdita di efficacia.

Il gel viene sfruttato per uso interno come emolliente e lenitivo nelle infiammazioni del tratto gastroenterico, per esempio in caso di glossiti e stomatiti, cioè processi infiammatori a carico della lingua e del cavo orale in generale, esofagiti, gastriti e sindrome del colon irritabile.

Sebbene resti ancora da chiarire il meccanismo con cui agiscano, i polisaccaridi contenuti nel gel giocherebbero anche un ruolo come immunomodulatori.

Il gel di aloe è ampiamente impiegato in dermatologia per la proprietà di idratare, proteggere e donare sollievo alla cute irritata, per cui è consigliato nelle scottature, incluse quelle solari, per contrastare il prurito causato dalle punture di insetto, favorire la rimarginazione delle ferite e dare sollievo alla pelle a tendenza acneica.

Il fatto che si tratti di prodotti di origine naturale non rende succo e gel di aloe esenti da effetti indesiderati. Il succo in particolare può provocare diarrea con importanti crampi addominali, fino a determinare stati di ipopotassiemia, ossia la riduzione della concentrazione del potassio nel sangue. Il richiamo di elettroliti a livello intestinale rende i composti antrachinonici controindicati nell’infanzia, durante la gravidanza e l’allattamento, negli individui affetti da patologie infiammatorie a carico dell’intestino o che presentino diverticoli oppure occlusioni intestinali.

Il succo di aloe può anche dare luogo ad interazioni con farmaci antiaritmici, antinfiammatori, diuretici, con un incremento della loro tossicità. Il gel, nei soggetti ipersensibili, può invece essere causa di dermatiti nella sede di applicazione.

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Perché il solo esercizio fisico può non essere la chiave per la perdita di peso?

Alcuni scienziati statunitensi in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Diabetes”, edita dall’American Diabetes Association, hanno dimostrato che il solo esercizio fisico potrebbe non essere sufficiente a generare una discreta riduzione di peso. Le evidenze emerse nello studio che ha riguardato principalmente animali, potrebbe avere implicazioni anche sulle persone che praticano esercizio fisico con la speranza di una perdita di peso.

Negli anni recenti molti studi avevano già esaminato la correlazione tra esercizio fisico e perdita di peso e, gran parte di essi, avevano dimostrato che l’esercizio fisico, nella singolarità, non è un mezzo efficace per perdere peso. In gran parte di questi esperimenti i partecipanti perdevano meno peso di quanto invece si sarebbero aspettati, in proporzione all’effettivo dispendio di calorie durante le sessioni di allenamento.

Ebbene, nello studio pubblicato, gli scienziati hanno evidenziato che le persone che praticavano esercizio fisico, qualunque essa fosse la tipologia, tendevano ad essere più affamati e a consumare più calorie dopo l’attività fisica. Inoltre, hanno visto che coloro che effettuavano sessioni di allenamento, diventavano più sedentari fuori dalle sessioni di esercizio, nella vita di tutti i giorni. In pratica, questi ultimi atteggiamenti (sedentarietà e maggiore appetito) compensavano il dispendio extra di energie utilizzato durante gli allenamenti, andando a bilanciare il carico di calorie tra quelle dissipate e accumulate.

Da ciò ne consegue che non ha senso fare attività fisica e poi praticare una vita sedentaria e concedersi eccessi calorici, con la speranza poi di smaltirli durante le sessioni di allenamento.

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Nausea e vomito: farmaci e integratori per prevenirli e trattarli

Il vomito o emesi è un evento riflesso tramite il quale il contenuto gastrico viene espulso forzatamente attraverso il cavo orale. Spesso è preceduto dalla sensazione di disgusto o vomito incipiente detta nausea.

Il vomito è una risposta fisiologica positiva quando segue l’ingestione di una sostanza tossica, come l’alcol, ma può anche essere l’effetto indesiderato di alcuni farmaci, per esempio dei chemioterapici antitumorali, degli oppioidi, degli anestetici generali. Il vomito può presentarsi nei primi mesi della gravidanza, accompagnare crisi di emicrania e malattie infettive. Il termine cinetosi indica il malessere provocato dai movimenti irregolari del corpo che si verifica a bordo di un’automobile, di un aereo o di una nave.

Ai fini di evitare la disidratazione e, nel caso in cui il vomito sia indotto dall’assunzione di medicinali, migliorare l’aderenza alla terapia, esistono agenti definiti antiemetici in grado di contrastare questo disturbo spiacevole e talvolta invalidante. Il domperidone è un principio attivo definito procinetico, che stimola cioè la motilità gastrica e del tratto intestinale superiore in senso propulsivo. La metoclopramide agisce anche sul tratto digerente inferiore ed entrambe le molecole trovano impiego pure nel trattamento del reflusso gastroesofageo. L’uso cronico di domperidone e metoclopramide può essere accompagnato dalla comparsa di iperprolattinemia, cioè da livelli elevati dell’ormone prolattina nel sangue, con ginecomastia, che è lo sviluppo anomalo delle dimensioni delle mammelle nell’uomo, e galattorrea, ossia la secrezione di latte nell’uomo o nella donna al di fuori del periodo dell’allattamento. Altri effetti collaterali importanti associati all’uso protratto di questi farmaci sono i disturbi motori.

Ciclizina, cinnarizina e dimenidrinato sono antistaminici utilizzati nel mal di moto, mentre la prometazina è usata in particolare nella nausea gravidica. I principali effetti indesiderati degli antistaminici sono sonnolenza e sedazione. La ioscina o scopolamina viene somministrata per prevenire e trattare la cinetosi, sia per bocca che in forma di cerotti transdermici; può causare secchezza delle fauci e visione offuscata.

L’ondansetron è il farmaco di scelta nel trattamento del vomito nei pazienti oncologici. Clorpromazina, perfenazina, proclorperazina e trifluoperazina sono efficaci nelle gastroenteriti virali, nel trattamento del vomito conseguente a radioterapia, nella nausea mattutina che si può presentare nei primi mesi della gestazione. Questi farmaci, somministrati per via orale, endovenosa o rettale, provocano sedazione, ipotensione e difficoltà motorie. Derivati sintetici dei cannabinoidi, quali il nabilone, contrastano il vomito che origina dai farmaci anticancro.

Per coloro che preferiscono i rimedi naturali e per le donne incinte sono disponibili preparati a base di zenzero e vitamina B6 o piridossina. A dosaggi elevati lo zenzero può causare eruzioni cutanee; essendo un antiaggregante piastrinico, l’uso andrebbe evitato nei soggetti in terapia con farmaci antipiastrinici e anticoagulanti orali, in modo da scongiurare il rischio di pericolose emorragie.