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Gli additivi chimici possono interferire con i trattamenti antibiotici

Le corsie dei negozi sono spesso rifornite con prodotti che promettono di uccidere i batteri. Spesso le persone usano quei prodotti che promettono di “uccidere i batteri”. Tuttavia, un recente studio della Washington University in St. Louis, pubblicato sulla rivista scientifica “Antimicrobial Agents & Chemotherapy”, ha scoperto che i prodotti che si supponga uccidano i batteri, non fanno altro che renderli più forti e capaci di sopravvivere ai trattamenti antibiotici.
In particolare, riferisce lo studio, l’esposizione al “triclosan”, può inavvertitamente portare i batteri in uno stato nel quale sono capaci di tollerare concentrazioni normalmente letali di antibiotico, compresi quegli antibiotici che sono comunemente usati per trattare le infezioni del tratto urinario.
Il triclosan è l’additivo responsabile dell’azione “antibatterica”, usato in dentifrici, collutori, prodotti cosmetici, ma anche vestiti, giocattoli per bambini, carte di credito, e altri supporti, con l’intenzione di ridurre la carica batterica e la crescita dei germi.
Ebbene, il nuovo studio effettuato su topi di laboratorio, ha scoperto fino a che punto l’esposizione al triclosan limita la capacità dell’organismo di rispondere al trattamento antibiotico per l’infezione del tratto urinario, oltre che mostrare evidenze sul meccanismo cellulare che consente al triclosan di interferire con il trattamento antibiotico.

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Diabete e mail di schiena, studio evidenzia possibile correlazione

«I pazienti diabetici hanno un rischio maggiore del 35% di avvertire mal di schiena e del 24% maggiore di avere dolore al collo, rispetto a coloro che non hanno il diabete». È quanto emerge in sintesi da uno studio revisionale effettuato dai ricercatori dell’Università di Sydney, in Australia. La scoperta, basata su un’analisi di altri studi che comprovavano un legame tra diabete e mal di schiena o di collo, è stata pubblicata sulla rivista scientifica “Plos One”. Molti adulti ad un certo punto della loro vita provano mal di schiena, ma anche dolore al collo. Il diabete invece è una condizione cronica ed il tipo 2, non insulino-dipendente, riguarda 382 milioni di persone nel mondo.
«Non esistono sufficienti prove riguardo i motivi che stabiliscono il perché della correlazione tra diabete e mal di schiena o collo», spiega Manuela Ferreira responsabile dello studio. «Il diabete e il dolore alla schiena e al collo sembrano essere in qualche modo connessi», sottolinea Ferreira. Inoltre, spiega, «il diabete di tipo 2 e il mal di schiena e di collo hanno una forte correlazione con l’obesità e la mancanza di attività fisica, quindi sicuramente questa ricerca proseguirà per esaminare questi fattori nel dettaglio». «La nostra analisi giunge all’evidenza che il controllo del peso e l’attività fisica giocano un ruolo fondamentale per il mantenimento della salute». Lo studio, inoltre, ha evidenziato che i farmaci sul diabete agiscono sul dolore, possibilmente agendo sugli effetti dello zucchero nel sangue, ed anche questa connessione merita di essere approfondita.

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Carbimazolo o tiamazolo, l’Aifa: «Possibile rischio pancreatite acuta o malformazioni congenite»

I farmaci contenenti carbimazolo o tiamazolo sono comunemente usati nel trattamento dell’ipertiroidisimo, nella preparazione all’intervento di tiroidectomia subtotale, alla terapia con iodio-radioattivo, oltre che quando la tiroidectomia è controindicata o non consigliabile. In Italia gli unici farmaci in commercio sono quelli a base di tiamazolo (metimazolo), commercializzato con il nome di Tapazole®.
L’azienda Teofarma S.r.l., produttrice del farmaco, in accordo con l’Agenzia europea dei medicinali e l’Agenzia italiana del farmaco, evidenzia in una nota del possibile rischio di pancreatite acuta «in seguito all’assunzione di carbimazolo/tiamazolo». Per questo motivo, si legge, «nel caso in cui un paziente presenti pancreatite acuta, il trattamento con carbimazolo/tiamazolo deve essere interrotto immediatamente». Inoltre, prosegue la nota, «dato che la riesposizione potrebbe determinare il ripresentarsi della pancreatite acuta, con un più rapido tempo di insorgenza, questo medicinale non deve essere somministrato a pazienti con storia di pancreatite acuta in seguito all’assunzione di carbimazolo/tiamazolo».
Nella stessa nota le Agenzie sottolineano inoltre la necessità di rafforzare le avvertenze in merito alla contraccezione. Ciò perché «una nuova revisione dei risultati di studi epidemiologici e dei casi spontanei rafforza l’evidenza che il carbimazolo/tiamazolo sia sospettato causare malformazioni congenite quando somministrato durante la gravidanza, in particolare nel primo trimestre e ad alte dosi». Per questo motivo, «le donne in età fertile devono utilizzare misure contraccettive efficaci durante il trattamento con carbimazolo/tiamazolo». «L’ipertiroidismo nelle donne in gravidanza – specifica la nota – deve essere trattato adeguatamente per prevenire gravi complicazioni nella madre ed nel feto». Non solo. «Il carbimazolo/tiamazolo deve essere somministrato durante la gravidanza soltanto a seguito di una rigorosa valutazione del rapporto beneficio/rischio per ogni singolo caso e solo alla dose efficace più bassa senza somministrazione supplementare di ormoni tiroidei». Infine, «se il carbimazolo/tiamazolo viene utilizzato durante la gravidanza, si raccomanda un monitoraggio attento della madre, del feto e del neonato».
Per ulteriori dettagli in merito a questa informativa è possibile consultare la nota integrale, pubblicata sul sito www.aifa.gov.it, oppure rivolgersi al proprio medico curante o farmacista di fiducia.

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Lotta al colesterolo, scoperto ruolo cruciale di proteina Pcsk9

Nuove evidenze giungono in tema di lotta al colesterolo. In particolare, due studi internazionali guidato dal Centro Cardiologico Monzino e dall’Università degli Studi di Milano, hanno confermato il ruolo che una proteina, denominata Pcsk9, ha anche nello sviluppo di infarto, ictus e nella calcificazione della valvola aortica, oltre che nella già nota azione sul colesterolo.
Tale proteina infatti svolge un’azione chiave nell’aggregazione delle piastrine, a causa delle quali si sviluppano i processi trombotici che poi scatenano infarti e ictus, oltre che nella calcificazione della valvola aortica. In tal senso, le conferme arrivano da due studi del Centro Cardiologico Monzino, pubblicati sulla rivista scientifica “Journal of the American College of Cardiology”.
Intervenendo sulla proteina Pcsk9, quindi, con opportuni farmaci denominati “anticorpi monoclonali” in grado di disattivarla, è stato possibile contrastare l’ipercolesterolemia riducendola fino al 60-70%, con particolare riferimento al colesterolo LDL, cosiddetto “cattivo”. Ciò nelle forme più resistenti in cui i tradizionali farmaci usati non hanno avuto una riduzione consistente di tali valori.
«Questi dati – spiega Marina Camera, principale autrice dello studio – ci hanno spinto a ipotizzare che i benefici in termini di eventi cardiovascolari prevenuti bloccando Pcsk9 potessero dipendere non soltanto dalla riduzione di colesterolo ottenuta. Abbiamo pensato che potesse esserci di più, che l’azione di questa proteina potesse estendersi oltre il metabolismo dei lipidi, e così abbiamo iniziato a cercare».

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Smettere di fumare: le terapie complementari sono efficaci?

Negli ultimi anni, vista anche la vastità del problema del fumo, è emerso un sempre maggiore interesse verso alcune terapie complementari a quelle farmacologiche. Alcune di esse risultano essere efficaci, tuttavia, non vi sono sufficienti prove scientifiche che ne testimonino l’efficacia.
A fare il punto di ciò che funziona e cosa no, è il National center for complementary and integrative health (Nccih), agenzia governativa statunitense che si occupa di medicina complementare, secondo il quale «vi sono prove che suggeriscono come alcune pratiche di meditazione mente-corpo, lo yoga e altre tecniche di rilassamento, come l’immaginazione guidata o il rilassamento muscolare, possano aiutare le persone a smettere di fumare». «È inoltre dimostrato   – spiega l’organismo – che l’agopuntura è un’altra pratica utile contro il vizio del fumo ma solo per un breve periodo, non esistono infatti prove sulla sua efficacia a lungo termine».
Sono invece risultati conflittuali gli studi sull’ipnosi come metodo complementare anti-fumo. A queste terapie, secondo il Nccih, si aggiunge anche l’assunzione di alcuni integratori, in particolare la S-adenosil metionina (Sam), conosciuta anche come ademetionina, la lobelina, alcaloide derivante dalla pianta Lobelia inflata, e l’iperico, pianta officinale con proprietà fitoterapeutiche, in particolare antidepressive e antivirali.
Infine, esiste un altro prodotto naturale usato in Europa e anche in Italia, la citisina, che sembra essere molto valido nella disassuefazione dal fumo, ma che non è ancora stata approvata dalla Food and drug administration (Fda) americana. A tal proposito, nello studio sulle terapie complementari per combattere il vizio del fumo, si inserisce proprio l’intervento del National center for complementary and integrative health, il quale sta focalizzando l’attenzione sulla citisina e vuole portare prove cliniche e non per presentare richiesta d’indagine da parte della Fda.
Al momento, secondo gli esperti del Nccih, «le pratiche corpo-mente come la meditazione e lo yoga, se eseguite correttamente, sono da considerarsi salutari e non comportano controindicazioni in pazienti sani». Il centro, tuttavia, suggerisce di fare attenzione ai metodi alternativi anche se “naturali” come gli integratori sopracitati perché «naturale non significa sicuro. Alcuni integratori possono avere effetti collaterali e altri possono interagire con medicinali o altri integratori». In particolare, si porta come esempio l’iperico, che ha già avuto numerose interazioni con alcuni medicinali, interazioni che in alcuni casi possono avere conseguenze serie.