Come noto, a partire dal 2016 tutte le strutture sanitarie, comprese le farmacie, e le figure professionali che erogano prestazioni sanitarie, sono obbligate ad inviare al Sistema TS le fatture emesse nei confronti dei propri pazienti.
«Il fine – spiega il ministero dell’Economia e delle Finanze – è quello di mettere a disposizione dell’Agenzia delle entrate le informazioni concernenti le spese sanitarie sostenute dai cittadini nel corso dell’anno, affinché sia possibile predisporre la dichiarazione dei redditi precompilata». In quest’ottica, «i dati sono messi a disposizione dei cittadini che possono pertanto consultare le spese che hanno sostenuto, sulla base di quanto inviato al Sistema TS dagli erogatori di prestazioni sanitarie e veterinarie».
Nel mese di febbraio di ogni anno, «i cittadini possono esercitare il diritto di opposizione all’utilizzo di uno o più documenti fiscali da parte dell’Agenzia delle entrate», ciò prima della predisposizione della dichiarazione dei redditi.
Per raggiungere tale obiettivo, «i cittadini possono accedere ai servizi con la propria TS-CNS attivata, con le credenziali Fisconline o tramite SPID», ed eseguire delle funzioni apposite, tra cui la «consultazione dei propri dati di spesa sanitaria trasmessi dagli erogatori di prestazioni sanitarie», la «segnalazione di eventuali incongruenze riscontrati sulle spese sanitarie», ed infine l’«esercizio dell’opposizione all’invio dei dati all’Agenzia delle Entrate per la predisposizione della dichiarazione dei redditi precompilata». In questo ultimo caso, tale funzionalità è disponibile annualmente nel solo mese di febbraio.
Per poter visualizzare le funzionalità, è possibile accedere a questo link https://sistemats1.sanita.finanze.it/portale/spese-sanitarie-cittadini.
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
Tra circa sei mesi sarà diffusa una campagna per informare il consumatore sull’uso improprio dei telefoni cellulari. La notizia si inserisce in un discorso più ampio che intende fare maggiore chiarezza su tali pericoli, specialmente tra i soggetti più deboli, i bambini e i ragazzi. Il più immediato è quello di sviluppare una vera e propria dipendenza, che gli esperti della Scuola di psicoterapia Erich Fromm definiscono «nomofobia», ovvero l’ossessione per lo smartphone, che si sviluppa in ansia di rimanere senza batteria, senza credito o senza rete. Per gli studiosi dell’Università Federale di Rio de Janeiro la nomofobia non è una semplice ansia, bensì ma una dipendenza patologica. Si tratta, dunque, di un vero e proprio disturbo di massa, che coinvolge il mondo intero, italiani inclusi, e che colpirebbe specialmente i più giovani. Secondo le stime dell’Università di Granada, scrive La Repubblica «la fascia di età più colpita sarebbe quella tra i 18 e i 25 anni, giovani con bassa autostima e problemi nelle relazioni sociali che sentono il bisogno di essere costantemente connessi e in contatto con gli altri attraverso il telefono cellulare». Gli adolescenti sono le vittime più colpite da questa dipendenza che sembra modificare la chimica del cervello, la lontananza dal cellulare anche solo per qualche ora crea nei ragazzi provoca uno stato di malessere. Ne sono convinti anche in ricercatori dell’Università di Seul che in uno studio hanno evidenziato «uno squilibrio nei rapporti tra neurotrasmettitori – scrive Repubblica – le molecole che veicolano le informazioni tra le cellule del sistema nervoso». I sintomi della dipendenza si traducono in ansia, tremori e nei casi più estremi in tachicardia e vertigini. Senza andare troppo lontano, infatti, Telefono Azzurro, in collaborazione con Doxakids, ha tracciato un quadro completo e preoccupante in un documento dal titolo: “Il tempo del web, adolescenti e genitori online”, dove si evince che possedere un cellulare, magari di ultima generazione, ed essere in rete sono dei veri status symbol dai quali i ragazzi moderni non possono prescindere, pena un vero e proprio stato di disagio sociale. La ricerca, fatta su un campione di 600 ragazzi tra i 12 e i 18 anni, ha evidenziato che 17 ragazzi su 100 non riescono a staccarsi dal cellulare o dai social network. Un buon 25% è sempre connesso e il 45% lo è quotidianamente più volte al giorno. Il 78% dei ragazzi usano WhatsApp di continuo e il 21% si sveglia addirittura di notte per controllare l’arrivo di eventuali nuovi messaggi. «I nostri dati – si legge nel documento – mostrano come più di 1 adolescente su 3 abbia ricevuto il primo telefonino prima dei 13 anni (71%) e che l’età media si aggiri attorno agli 11 anni. Il dato fa riflettere, se si considera che le chiavi di casa vengono ricevute un anno dopo (attorno ai 12 anni), anche se in linea con la media europea, dove il primo telefonino è stato regalato entro i primi 12 anni (il dato USA, su ricerche del 2015, indica che il primo telefonino viene regalato prima dei 6 anni)». Dunque non stupisce che anche l’iscrizione ai vari social network arrivi in età precoce, 12 o 13 anni al massimo. I rischi legati all’abuso della rete da parte dei più giovani, oltre alla già citata dipendenza, sono tanti e vanno dal cyberbullismo all’abuso, dalla pedopornografia all’utilizzo dei dati forniti per fini commerciali poco nobili quali per esempio l’adescamento online, dalle truffe negli acquisti al furto di identità fino al gioco d’azzardo.
L’Agenzia europea dei medicinali ha concluso una revisione dei medicinali contenti l’antidolorifico metamizolo, raccomandando alcune modifiche alle informazioni sul prodotto affinché siano univoche per tutti gli stati membri dell’Unione europea. In particolare, la posologia per le donne negli ultimi tre mesi di gravidanza o durante l’allattamento dovranno essere uguali per tutti i medicinali contenenti metamizolo in vendita negli stati UE.
Il metamizolo, conosciuto anche come dipirone, è un analgesico in grado di alleviare febbre e spasmi muscolari. È in uso da anni sia in Italia che in Europa e si presenta in diverse forme, tra cui quella orale, in supposte e iniezioni, per trattare il dolore severo e la febbre quando altri farmaci non sono efficaci. A seguito della domanda di revisione da parte della Polonia, l’Agenzia ha esaminato le informazioni disponibili sulla modalità di distribuzione del dipirone nel corpo e sul meccanismo d’azione. Successivamente, ha allertato gli Stati membri in merito alle dosi da somministrare, specificando che «una dose singola massima per bocca di 1.000 mg – si legge in una nota-, somministrata fino a 4 volte al giorno, dose giornaliera massima di 4.000 mg, in pazienti di età pari o superiore ai 15 anni. Il trattamento dovrebbe iniziare alla dose minima raccomandata e dovrebbe essere aumentata solo se necessario». Inoltre, aggiunge, «se somministrato per iniezione, la dose giornaliera totale non deve superare i 5.000 mg. Le dosi nei pazienti più giovani dovrebbero essere basate sul loro peso corporeo, ma alcuni prodotti potrebbero non essere adatti a causa del loro dosaggio».
L’Agenzia precisa che sebbene il metamizolo sia presente sul mercato da quasi un secolo, sono scarse le informazioni sui suoi effetti in gravidanza e allattamento. Avendo quindi trovato poche prove che possano suggerire problemi all’inizio della gravidanza, le dosi singole nei primi sei mesi potrebbero considerarsi accettabili, ma solo in assenza di soluzioni alternative. Tuttavia, l’Ema spiega che «vi sono alcune prove di effetti sui reni e sulla circolazione del feto se il medicinale viene usato negli ultimi tre mesi di gravidanza e pertanto il medicinale non deve essere usato in questo periodo». Per questo motivo, ai fini precauzionali, l’Ema specifica che «il metamizolo non deve essere usato durante l’allattamento perché il bambino può ricevere elevate quantità di medicinale rispetto al peso del bambino attraverso il latte».
La media dei livelli di colesterolo nel sangue sarebbe più alta nella prima settimana di gennaio. Lo scrive il quotidiano The New York Times sulla base di una ricerca portata a termine da studiosi danesi pubblicata sulla rivista scientifica “The atherosclerosis journal”. L’analisi è stata effettuata su un campione di 25.764 persone nella città di Copenhagen con un’età media di 59 anni. Nessuna di queste persone assumeva farmaci per abbassare il colesterolo. Dopo il monitoraggio periodico, la media di colesterolo totale nel sangue del campione nell’arco dell’anno è risultata di 205 mg/dl, ovvero appena sopra il livello massimo raccomandato di 200 mg/dl. Mentre, il cosiddetto colesterolo “cattivo”, era invece di 116 mg/dl, anche questo appena sopra il livello considerato salutare di 100 mg/dl.
Ciò che ha colpito i ricercatori è stato lo scoprire come il colesterolo totale e quello “cattivo” abbiano subito una brusca impennata per tre anni consecutivi sempre nel mese di gennaio. Durante la prima settimana di gennaio, infatti, il colesterolo totale era mediamente di 240 mg/dl e quello “cattivo” di 143 mg/dl, entrambi oltre i limiti considerati sani. Nel mese di giugno, i valori erano invece più bassi, in particolare 197 mg/dl la media dei valori di colesterolo totale e 108 mg/dl quella del colesterolo “cattivo”. Quasi il doppio delle persone sottoposte allo screening, dunque, avevano livelli lipidici nel sangue malsani più in gennaio che in giugno.
L’autrice principale dello studio, Anne Lansted dell’ospedale danese Herlev and Gentofte ha affermato che «la mancanza di esercizio fisico e l’indulgenza a consumare cibi troppo grassi durante le festività sono tra le cause principali di questi pessimi risultati». Tuttavia, Lansted ha anche confermato che «un livello di colesterolo costantemente alto può essere pericoloso. Non è possibile affermare con certezza, però, che i picchi a Natale siano così importanti e pericolosi, se durante il resto dell’anno si mantiene un buon livello di colesterolo nel sangue».
Sulla base delle nuove linee guida dell’ipertensione, anche coloro con età inferiore ai 40 anni dovranno da oggi preoccuparsi in caso di presenza di valori alterati della pressione. Secondo un recente studio svolto dal Duke University Medical Center, pubblicato sulla rivista americana JAMA, anche gli under 40 potrebbero essere a rischio di un evento cardiovascolare, tra cui ictus o infarto.
Lo studio, che ha utilizzato le nuove linee guida pubblicate nel 2017, le quali hanno spostato al ribasso la definizione del concetto di “pressione alta”, ha stabilito che identificare e trattare tale condizione di rischio anche nei soggetti giovani, può dare benefici a lungo termine.
«Questo è il primo passo nel valutare se l’ipertensione arteriosa, come definita dai nuovi criteri, è qualcosa di cui le giovani generazioni devono preoccuparsi e quindi considerare come precursore di problemi seri», ha detto il responsabile dello studio Yuichiro Yano, professore nel Department of Community & Family Medicine alla Duke University.
«Sebbene si tratti di uno studio osservazionale (ovvero che ha solo osservato dati già presenti senza capirne il perché, ndr) – ha aggiunto Yano -, ciò dimostra che le nuove linee guida sull’ipertensione sono utili nell’identificare coloro che potrebbero essere a rischio di eventi cardiovascolari.
Per arrivare a queste conclusioni il team del professor Yano ha analizzato i dati di circa 4.800 adulti con misurazioni della pressione arteriosa rilevate prima dei 40 anni, nell’ambito dello studio Coronary Artery Risk Development in Young Adults study (CARDIA), cominciato nel 1985. I partecipanti allo studio sono stati suddivisi in quattro gruppi, sulla base dei nuovi livelli di pressione applicati a partire dal 2017 dall’American Heart Association. In particolare, pressione normale, con 120 mm Hg o meno di pressione sistolica e 80 mm Hg o meno della diastolica, pressione elevata, con valori tra 120 e 129 mm Hg e 80 mm Hg, stadio 1 di ipertensione, con valori tra i 130 mm Hg e 139 Hg per la sistolica e 80 mm Hg e 89 mm Hg per la diastolica, ed infine, stadio 2 di ipertensione, con valori più elevati di 140 mm Hg per la sistolica e 90 mm Hg per la diastolica.
I ricercatori hanno verificato se, nel corso dei successivi 19 anni, i partecipanti avevano avuto eventi cardiovascolari seri. Ebbene, nei 228 eventi cardiovascolari occorsi, gran parte era avvenuto in presenza di valori elevati di pressione arteriosa.
«In accordo con questi risultati – conclude Yano -, coloro che avevano elevati valori di pressione, nello stadio 1 e 2 di ipertensione, prima dei 40 anni, hanno un significativo maggior rischio di sviluppare eventi cardiovascolari, se comparati a coloro che hanno valori di pressione normale prima dei 40».