Assosalute, l’associazione nazionale farmaci di automedicazione, di Federchimica, ha pubblicato i consigli per difendersi dalle allergie della polvere, con particolare attenzione alla proliferazione degli acari, con l’accensione del riscaldamento.
Anche l’autunno, infatti, come la primavera, può riservare brutte sorprese per i soggetti allergici. «Per quanto la casa rappresenti un rifugio sicuro nel quale ritirarsi – spiega Assosalute -, tanto più quando fuori piove e comincia a far freddo, purtroppo l’umidità, gli ambienti chiusi e meno arieggiati e la polvere possono scatenare, nei soggetti predisposti, una reazione allergica improvvisa: riniti, congiuntiviti fino a veri e propri attacchi d’asma che, soprattutto nei più piccoli, è bene non sottovalutare, perché come tutte le allergie possono peggiorare se non vengono affrontate adeguatamente».
Anche l’accensione dei riscaldamenti «favorisce la formazione della polvere e quindi la proliferazione di colonie di acari, tra i principali responsabili delle allergie».
La prevenzione della proliferazione degli acari passa attraverso alcune buone abitudini, di cui Assosalute si fa portatrice. In particolare, la pulizia dei caloriferi prima dell’accensione invernale dei riscaldamenti, al fine «di preservarne la loro resa termica ma anche per mantenere in casa una buona qualità dell’aria, fondamentale per evitare allergie soprattutto se già si soffre di problemi respiratori». Il secondo consiglio è di utilizzare fodere anti-acaro, rivestendo i materiali e i cuscini e proteggerli dalla penetrazione degli acari. Successivamente, ridurre al minimo la presenza di tappeti, piumini, poltrone imbottite e peluche. Arieggiare più volte al giorno i locali, anche se fuori fa freddo.
Per quanto riguarda l’aspirapolvere, sarebbe utile scegliere quelli dotati di filtri che impediscono la diffusione degli allergeni. A tal proposito, l’associazione suggerisce di «eliminare la polvere con frequenza». Anche le pulizie richiedono una buona attenzione, mediante l’uso di un panno umido che non disperda la polvere, e quindi, gli allergeni nell’ambiente. Infine, due consigli che, seppur scontati, aiutano alla riduzione degli acari, ovvero «lavare frequentemente, ad alte temperature, la biancheria da letto» ed «esporre all’aria cuscini e coperte».
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
Molte persone affette da acne percepiscono uno stigma sociale che influenza negativamente la loro qualità di vita, al punto da minarne la salute psicologica e fisica. A soffrire maggiormente tali conseguenze è il sesso femminile, le donne infatti avvertono più sintomi rispetto agli uomini. A rivelarlo sono i ricercatori dell’Università irlandese di Limerick, che hanno pubblicato su PLOS ONE i risultati di un sondaggio effettuato su 271 persone affette da acne. Per gli intervistati, la personale percezione negativa sulla considerazione che la società ha del loro aspetto è associata a livelli più elevati di stress psicologico e a ulteriori sintomi fisici come disturbi del sonno, mal di testa e problemi gastrointestinali. Le donne dello studio hanno riportato una compromissione della qualità della vita persino maggiore, con una significativa correlazione tra gravità dell’acne e peggioramento della qualità della vita riferibile alla salute psico-fisica. Coloro che percepivano alti livelli di stigma della propria acne hanno anche riportato livelli più elevati di disagio psicologico, ansia e depressione, nonché condizioni somatiche come disturbi respiratori. ‹‹Sappiamo dalla ricerca precedente che molti pazienti affetti da acne provano sentimenti negativi rispetto alla loro condizione, ma non siamo mai stati in grado di tracciare un legame diretto tra qualità della vita e percezione dello stigma sociale rispetto all’acne. – Ha spiegato uno degli autori dello studio, il dottor Aisling O’Donnell del Dipartimento di Psicologia e Centro per la ricerca sui problemi sociali dell’università irlandese – I risultati di questo studio riecheggiano quelli di ricerche precedenti che dimostrano che gli individui con distinzioni fisiche visibili, considerate negative dalla società, possono sperimentare una compromissione del benessere psicologico e fisico››.
Secondo l’autore principale dell’articolo, il dottor Jamie Davern, la mancanza di rappresentazione nella cultura popolare delle persone con acne può aumentare lo stigma percepito intorno a questa condizione: ‹‹Come molti attributi fisici che sono stigmatizzati, l’acne non è ben rappresentata nella cultura popolare, nella pubblicità o sui social media. Ciò può portare le persone che soffrono di questo problema a sentirsi “anormali” e quindi guardate negativamente dagli altri. Le campagne online come #freethepimple e il recente movimento “acne-positivo” sui social media, rappresentano quindi uno sviluppo incoraggiante per le persone di tutte le età che si sentono stigmatizzare››.
Anche se ad essere più comunemente colpiti da acne sono gli adolescenti, si stima che questa condizione affligga anche il 10,8% dei bambini di età compresa tra i 5 e i 13 anni e il 12,7% degli adulti di età superiore ai 59 anni.
‹‹È giusto sottolineare che i nostri risultati forniscono ulteriore supporto alla quantità relativamente limitata di studi che esaminano i problemi di salute fisici vissuti da persone affette da acne. Tali informazioni sono importanti per i medici che si occupano di questa condizione e per coloro che sono vicini a quelli che ne soffrono. Il forte impatto negativo che sperimentano alcuni pazienti affetti da acne è molto impegnativo da gestire e richiede sensibilità e sostegno››, ha concluso Davern.
L’8 settembre 2018 si è celebrata la Giornata Mondiale della Fisioterapia, momento per ricordare questa importante disciplina praticata già dal 480 a.C. da Ippocrate, padre della medicina, che concepì vari trattamenti tra cui il massaggio, la manipolazione e l’idroterapia. Ebbene, a distanza di migliaia di anni, la fisioterapia resta uno dei pilastri per il trattamento di determinate patologie, acute e croniche. Tuttavia spesso è difficile districarsi nei meandri di questo settore e per questo motivo, l’Associazione Italiana Fisioterapisti (Aifi), ha pubblicato un decalogo per agevolare i pazienti nella conoscenza delle regole fondamentali.
La prima regola fondamentale è affidarsi alla persona giusta, ovvero rivolgersi ad un fisioterapista qualificato che abbia ottenuto almeno una laurea triennale in fisioterapia. Successivamente, verificare che il fisioterapista sia sempre aggiornato sulle nuove tecniche e metodiche. Assicurarsi che il fisioterapista frequenti dei corsi di aggiornamento con regolarità. Richiedere al professionista un’approfondita diagnosi medico strumentale e costanti valutazioni per verificare i progressi fisici. Non aspettare che il dolore diventi insopportabile, è fondamentale avviare il processo riabilitativo quanto prima per evitare complicazioni.
Un altro aspetto importante è che si deve avere pazienza, la fretta di recuperare è un’acerrima nemica del lungo percorso riabilitativo.
Altrettanto fondamentale è seguire pedissequamente le istruzioni e i consigli del fisioterapista, che aiuteranno il recupero e la guarigione definitiva.
Infine, ultimi ma non meno importanti, svolgere i “compiti a casa” assegnati dal fisioterapista, come esercizi fisici e di recupero funzionale e, sia durante i trattamenti, sia nella vita di tutti giorni, condurre uno stile di vita sano e attivo e mantenere un’alimentazione equilibrata.
Manca poco all’abbassarsi delle temperature e molti saranno colpiti dai malanni invernali. E studi medici e farmacie si affolleranno di persone con sindromi influenzali.
«La prossima stagione influenzale dovrebbe essere di intensità media. Si stima, però, che non meno di 5 milioni di persone saranno costrette a letto, afferma il Prof. Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore del Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute dell’Università degli Studi di Milano e Direttore Sanitario IRCCS Galeazzi di Milano – nell’emisfero australe la stagione sta scorrendo con bassi livelli di diffusione e una prevalenza del virus AH1N1, anche se in quest’ultima parte di stagione rimane l’incognita del contributo del virus B che potrebbe innalzare la dimensione complessiva della stagione». L’andamento dipende molto da come saranno le temperature ed è dunque difficile fare previsioni certe.
È stata recentemente presentata la ricerca on line “Gli italiani e l’influenza stagionale” da Assosalute (Associazione nazionale farmaci di automedicazione, aderente a Federchimica). Da questa risulta che il comportamento più comune è rivolgersi al medico di base, adottato dal 49% ed è stabile rispetto agli anni precedenti. Uno dei dati emersi è che il 25,6% degli italiani per avere indicazioni di cura si rivolge al farmacista, questo dato è particolarmente interessante perché conferma come il farmacista sia un punto di riferimento per la persona. Questa tendenza è in costante aumento, infatti la medesima domanda era presente anche nelle ricerche effettuate nel 2016 e 2017, in cui risultava che si rivolgeva al farmacista, rispettivamente il 17,7% e il 20,8% degli intervistati. Inoltre, risulta che a preferire il consiglio del farmacista sono le donne, 27,2%. Il ricorso all’automedicazione “autonoma” risulta essere in calo e passa dal 40,5% del 2017 al 35,2%. I farmaci di automedicazione sono il rimedio più utilizzato, dal 58,5% del campione. Questo è molto positivo perché il farmacista aiuta ad avere un comportamento corretto nei confronti dei sintomi: scegliere farmaci che migliorano i sintomi senza azzerarli. E consiglia farmaci che non causino interazioni con altre terapie.
Il 14% della popolazione ricorre al vaccino antinfluenzale esattamente come nella rilevazione dello scorso anno.
«Non dobbiamo dimenticare che in Australia il periodo a rischio non è ancora finito e che le cose possono cambiare anche radicalmente. Quanto successo lo scorso anno ce l’ha ricordato chiaramente: ci aspettavano una stagione nella norma e, invece, quella 2017/2018 è stata una delle stagioni più pesanti degli ultimi anni, con il numero record di 8,5 milioni di casi solo in Italia. Una lezione che non dobbiamo dimenticare – conclude Pregliasco – molto dipenderà anche dal meteo: se questo inverno dovesse essere più lungo e freddo sicuramente si avranno molti più pazienti influenzati».
Sin dalla loro prima comparsa nel 2003 in Cina, le sigarette elettroniche, o e-cigarette, sono state progettate per favorire un graduale allontanamento dalle sigarette tradizionali, accanto ad altri presidi quali i cerotti e le gomme da masticare alla nicotina. Da allora le sigarette elettroniche hanno conquistato i mercati di tutto il mondo, spingendo la comunità scientifica ad interrogarsi sia sugli effetti che le sostanze in essa contenute possono avere sulla salute e se questi siano paragonabili a quelli delle sigarette tradizionali, sia sulla reale utilità di questi dispositivi rispetto allo scopo originario. Sebbene, infatti, il “vaping” sia la strategia più utilizzati dai fumatori che desiderano smettere, le ricerche hanno sinora prodotto risultati controversi, mentre sulla minore tossicità delle sigarette elettroniche rispetto a quelle tradizionali, la maggior parte degli esperti concordano, anche sulla base dei più recenti studi indipendenti condotti in Gran Bretagna, che hanno dimostrato che il rischio di cancro derivante dalle è-cigarette è solo dell’1% rispetto al fumo.
E sempre dal Regno Unito provengono le maggiori ricerche sull’utilità della sigaretta elettronica come strumento per smettere di fumare, che tuttavia non sono ancora risolutive. E’ del 2016 la prima analisi sistematica di studi randomizzati sull’argomento, grazie al quale i ricercatori della Cochrane Collaboration hanno rilevato che l’uso di sigarette elettroniche a base di nicotina, rispetto a sigarette elettroniche senza nicotina, è efficace per smettere di fumare per un periodo di tempo compreso tra i 6 e i 12 mesi, ma il campione utilizzato era esiguo (662 persone) e la qualità metodologica bassa, oltre ad aver incluso anche e-cigarette di prima generazione ormai superate. Un’altra revisione pubblicata nel 2017 sulla rivista Current Opinion in Pulmonary Medicine, invece, ha messo in evidenza come l’utilizzo delle sigarette elettroniche come strumento utile a smettere di fumare non porti risultati migliori di un placebo o delle terapie sostitutive della nicotina. mentre lo stesso anno altre istituzioni come il Royal College of General Practitioners e la British Medical Association, hanno pubblicato nuovi rapporti che indicano anche le e-sigarette come una scelta positiva per i fumatori che cercano di smettere. In Italia i dati disponibili sono relativi al 2013, e indicano che 3,5 milioni di persone di età superiore ai 15 anni hanno provato ad utilizzare una sigaretta elettronica almeno una volta, mentre 600.000 ne fanno uso abitualmente, e 1 fumatore pentito su 10 prova a smettere con questo sistema, un numero tre volte superiore rispetto a coloro che usavano altri presidi.
Per ciò che riguarda più propriamente gli effetti sulla salute dell’ uso delle sigarette elettroniche, il grado di tossicità dipende dall’eterogeneità dei modelli attualmente in commercio e dalla composizione dei liquidi. Le e-cigarette sono dispositivi alimentati a batteria in grado di riscaldare fino alla vaporizzazione un liquido contenente nicotina in varie concentrazioni o altri aromi. Il liquido contiene solitamente anche glicole propilenico e glicerolo che possono causare irritazioni agli occhi e al tratto respiratorio, e altre sostanze tossiche quali composti carbonilici, composti organici volatili, nitrosammine cancerogene e metalli pesanti, la cui soglia di pericolosità resta ignota. Tuttavia, bisogna tener presente che nel vapore emesso dalla sigaretta elettronica la presenza di questi composti è risultata da 9 a 450 volte minore rispetto al fumo di sigaretta tradizionale.
Già uno studio del 2016 del Royal College of Physicians aveva stimato che i danni per la salute associati all’utilizzo delle e-cigarette potrebbero non superare il 5% di quelli causati dalle sigarette contenenti tabacco, ma nel 2017 sono arrivate ulteriori conferme con la pubblicazione del primo studio a lungo termine sullo svapo, finanziato dalla Cancer Research UK, che ha confrontato l’esposizione tossica tra le persone che avevano smesso di fumare e utilizzato i prodotti per una media di 16 mesi, rispetto a quelli che avevano continuato a fumare, rilevando forti riduzioni negli agenti cancerogeni e in altri composti tossici tra i vapers rispetto ai fumatori, ma solo per coloro che avevano smesso completamente di fumare. Infine, un’analisi scientifica ancora più recente, ha confrontato le sostanze tossiche cancerogene presenti nei vapori e nel fumo. La maggior parte dei dati disponibili sulle sigarette elettroniche in questo studio hanno suggerito che il rischio di cancro derivante dal vaping è di circa l’1% rispetto al fumo. Linda Bauld, presidente della Society for Research su Nicotine and Tobacco Europe, commentando sul The Guardian queste ultime evidenze scientifiche, ha spiegato che dato che l’inalazione e la masticazione di tabacco bruciato sono estremamente dannosi per la salute umana, rimuovendo il tabacco e la combustione si riduce il rischio,”Ciò non significa che le e-sigarette siano innocue. Ma ciò significa che possiamo essere ragionevolmente sicuri che passare dal fumo allo svapo porterà benefici per la salute”.
Dunque se è chiaro che le sigarette elettroniche riducono in maniera sensibile il rischio di cancro rispetto alle sigarette tradizionali, è ancora incerto se queste siano davvero utili a smettere di fumare, né quali possono essere gli effetti collaterali a lungo termine del complesso di sostanze in esse contenute, che potranno essere valutati solo nel corso del tempo.