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Colesterolo, livelli più elevati nel mese di gennaio

La media dei livelli di colesterolo nel sangue sarebbe più alta nella prima settimana di gennaio. Lo scrive il quotidiano The New York Times sulla base di una ricerca portata a termine da studiosi danesi pubblicata sulla rivista scientifica “The atherosclerosis journal”. L’analisi è stata effettuata su un campione di 25.764 persone nella città di Copenhagen con un’età media di 59 anni. Nessuna di queste persone assumeva farmaci per abbassare il colesterolo. Dopo il monitoraggio periodico, la media di colesterolo totale nel sangue del campione nell’arco dell’anno è risultata di 205 mg/dl, ovvero appena sopra il livello massimo raccomandato di 200 mg/dl. Mentre, il cosiddetto colesterolo “cattivo”, era invece di 116 mg/dl, anche questo appena sopra il livello considerato salutare di 100 mg/dl.
Ciò che ha colpito i ricercatori è stato lo scoprire come il colesterolo totale e quello “cattivo” abbiano subito una brusca impennata per tre anni consecutivi sempre nel mese di gennaio. Durante la prima settimana di gennaio, infatti, il colesterolo totale era mediamente di 240 mg/dl e quello “cattivo” di 143 mg/dl, entrambi oltre i limiti considerati sani. Nel mese di giugno, i valori erano invece più bassi, in particolare 197 mg/dl la media dei valori di colesterolo totale e 108 mg/dl quella del colesterolo “cattivo”. Quasi il doppio delle persone sottoposte allo screening, dunque, avevano livelli lipidici nel sangue malsani più in gennaio che in giugno.
L’autrice principale dello studio, Anne Lansted dell’ospedale danese Herlev and Gentofte ha affermato che «la mancanza di esercizio fisico e l’indulgenza a consumare cibi troppo grassi durante le festività sono tra le cause principali di questi pessimi risultati». Tuttavia, Lansted ha anche confermato che «un livello di colesterolo costantemente alto può essere pericoloso. Non è possibile affermare con certezza, però, che i picchi a Natale siano così importanti e pericolosi, se durante il resto dell’anno si mantiene un buon livello di colesterolo nel sangue».

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Pressione alta, rischio cardiovascolare anche per under 40

Sulla base delle nuove linee guida dell’ipertensione, anche coloro con età inferiore ai 40 anni dovranno da oggi preoccuparsi in caso di presenza di valori alterati della pressione. Secondo un recente studio svolto dal Duke University Medical Center, pubblicato sulla rivista americana JAMA, anche gli under 40 potrebbero essere a rischio di un evento cardiovascolare, tra cui ictus o infarto.
Lo studio, che ha utilizzato le nuove linee guida pubblicate nel 2017, le quali hanno spostato al ribasso la definizione del concetto di “pressione alta”, ha stabilito che identificare e trattare tale condizione di rischio anche nei soggetti giovani, può dare benefici a lungo termine.
«Questo è il primo passo nel valutare se l’ipertensione arteriosa, come definita dai nuovi criteri, è qualcosa di cui le giovani generazioni devono preoccuparsi e quindi considerare come precursore di problemi seri», ha detto il responsabile dello studio Yuichiro Yano, professore nel Department of Community & Family Medicine alla Duke University.
«Sebbene si tratti di uno studio osservazionale (ovvero che ha solo osservato dati già presenti senza capirne il perché, ndr) – ha aggiunto Yano -, ciò dimostra che le nuove linee guida sull’ipertensione sono utili nell’identificare coloro che potrebbero essere a rischio di eventi cardiovascolari.
Per arrivare a queste conclusioni il team del professor Yano ha analizzato i dati di circa 4.800 adulti con misurazioni della pressione arteriosa rilevate prima dei 40 anni, nell’ambito dello studio Coronary Artery Risk Development in Young Adults study (CARDIA), cominciato nel 1985. I partecipanti allo studio sono stati suddivisi in quattro gruppi, sulla base dei nuovi livelli di pressione applicati a partire dal 2017 dall’American Heart Association. In particolare, pressione normale, con 120 mm Hg o meno di pressione sistolica e 80 mm Hg o meno della diastolica, pressione elevata, con valori tra 120 e 129 mm Hg e 80 mm Hg, stadio 1 di ipertensione, con valori tra i 130 mm Hg e 139 Hg per la sistolica e 80 mm Hg e 89 mm Hg per la diastolica, ed infine, stadio 2 di ipertensione, con valori più elevati di 140 mm Hg per la sistolica e 90 mm Hg per la diastolica.
I ricercatori hanno verificato se, nel corso dei successivi 19 anni, i partecipanti avevano avuto eventi cardiovascolari seri. Ebbene, nei 228 eventi cardiovascolari occorsi, gran parte era avvenuto in presenza di valori elevati di pressione arteriosa.
«In accordo con questi risultati – conclude Yano -, coloro che avevano elevati valori di pressione, nello stadio 1 e 2 di ipertensione, prima dei 40 anni, hanno un significativo maggior rischio di sviluppare eventi cardiovascolari, se comparati a coloro che hanno valori di pressione normale prima dei 40».

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Cannabis per uso medico, aumentano i quantitativi importati dall’Olanda

Il ministro della Salute olandese Hugo De Jonge ha approvato la commercializzazione in favore dell’Italia di ulteriori quantitativi di Cannabis per uso medico. L’omologo italiano, Giulia Grillo, ne aveva fatto richiesta poiché le quantità prodotte dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze e quelle già importate negli anni precedenti, non erano sufficienti a soddisfare il crescente fabbisogno nazionale. Lo scorso novembre il ministero della Salute aveva reso noto che, in collaborazione con il ministero della Difesa, sarebbero stati disponibili i primi lotti di sostanza attiva a base di Cannabis, denominata FM-1, prodotta dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze e costituita da infiorescenze essiccate e triturate, contenenti le percentuali di THC tra il 13 e il 20%, oltre che di Cannabidiolo (CBD), inferiori all’1%.
Ciononostante, la produzione italiana non soddisfa il crescente fabbisogno dei pazienti che utilizzano Cannabis come supporto ed affiancamento ad altri trattamenti standard. Da qui, la necessità dell’importazione di ulteriori quantitativi dall’Olanda. «Il 2019 dovrebbe finalmente segnare l’anno della svolta per i pazienti in trattamento, poiché per la prima volta le disponibilità effettive dovrebbero superare la tonnellata, a fronte dei 350 kg del 2017 e dei circa 600 kg del 2018», ha spiegato Giulia Grillo, ministro della Salute, confermando l’impegno e la volontà di risolvere altre problematiche riguardanti questi farmaci, in primis la difficoltà nella distribuzione.

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Girovita: l’allattamento al seno oltre i sei mesi ne favorisce la riduzione

Le mamme che allattano al seno per più di sei mesi avrebbero un girovita ridotto rispetto a coloro che hanno allattato i loro piccoli per meno di sei mesi. E’ quanto emerge da un’analisi pubblicata sul “The journal of women’s health”, di cui da notizia il The New York Times. Lo studio ha coinvolto 678 mamme osservate anche per gli 11 anni successivi al parto. In linea generale, i risultati dell’osservatorio hanno evidenziato i maggiori ed evidenti benefici a favore di coloro che hanno protratto l’allattamento al seno oltre il semestre. Nello specifico, queste ultime avevano assottigliato il girovita di circa 3,5 centimetri in più, rispetto alle mamme che avevano allattato il loro bambino per meno di sei mesi. Inoltre, tale forma fisica migliore si sarebbe protratta per i successivi dieci anni dopo il parto.
La motivazione principale, secondo gli studiosi, sarebbe da imputare ad una maggiore attenzione alla salute delle donne che hanno scelto di protrarre l’allattamento al seno. Il loro stile di vita, come emerso durante il decennio di osservazione, è risultato più attento alla salute in generale. L’analisi riguardava diversi aspetti, tra cui età, indice di massa corporea durante la gravidanza, peso accumulato durante la gestazione, pressione arteriosa e le abitudini di vita in generale, ovvero fumo, qualità e varietà della dieta, formazione scolastica, razza e altre caratteristiche comportamentali e salutistiche. Tale studio si è limitato ad osservare quanto evidenziato, non avendo mostrato il rapporto causa-effetto.
L’Organizzazione mondiale della sanità (WHO), si legge nello studio, raccomanda l’esclusivo allattamento al seno per almeno i primi sei mesi di vita poiché è ottimale per la salute del neonato. Inoltre, precisa, esistono benefici equivalenti anche per la salute della madre. Generalmente la gravidanza è accompagnata da un accumulo di peso e da ritenzione postparto. Ciò può contribuire all’aumento della resistenza all’insulina e a malattie cardiovascolari in futuro. La produzione di latte materno dopo il parto richiede un dispendio energetico di circa 550 kcal in più al giorno. Alcuni studi precedenti, anche se non tutti, hanno trovato un’associazione tra l’allattamento e la salute materna e hanno dimostrato che un allattamento più duraturo può essere relazionato a una salutare perdita di peso e a una migliore composizione corporea.

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Carne rossa, affettati e insaccati: quando fanno male?

Gli italiani, grandi estimatori di prosciutto, salame e mortadella, potrebbero dover rivedere le loro abitudini alimentari. Secondo l’American institute for cancer research (Iarc), agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, facente capo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il consumo di carni rosse sarebbe da “limitare”, mentre, quello delle carni lavorate industrialmente, come salumi e insaccati, da “evitare”. Ciò al fine di ridurre il rischio per lo sviluppo di certi tipi di cancro, in particolare il carcinoma del colon-retto.
L’Istituto americano sottolinea, che al momento i ricercatori non sanno esattamente quali carni rosse interessano lo sviluppo del carcinoma, tuttavia «è stato dimostrato che le carni rosse contengono dei composti che danneggiano il rivestimento dell’intestino e forse favoriscono lo sviluppo del cancro. Non solo. Cuocere la carne rossa ad alte temperature, spiega l’Iarc, può produrre altri composti cancerogeni».
Gli scienziati americani dell’Ente americano puntano il dito contro le carni cosiddette “processate”, ovvero lavorate industrialmente, confermando quindi che la carne rossa è da “limitare”, mentre tutte le carni processate sono da “evitare” poiché «qualsiasi quantitativo, se consumato regolarmente, aumenta il rischio di cancro allo stomaco e colon-rettale».
Dello stesso avviso è Alberto Vicenzi, nutrizionista sportivo e membro della società italiana Nutrizione Sport e Benessere (Sinseb), secondo cui «500 grammi a settimana di carne rossa cotta, 700-800 grammi a crudo, e 70-80 grammi di carne processata a settimana incrementano dell’8% il rischio relativo di cancro al colon retto. Il rischio relativo si somma al rischio già esistente che è 100. Quindi la minaccia di contrarre tumore al colon retto per chi supera i quantitativi sopra indicati è dell’8% superiore, ossia 108».
«Gli americani – puntualizza Vicenzi – consumano per lo più carne di manzo e maiale, mentre la dieta italiana prevede anche cavallo, coniglio, ecc. sarebbe, dunque, più corretto parlare di carne di mammiferi e non di carne rossa in generale. In più, non è ancora ben chiaro se l’aumento del rischio sia dovuto all’eccessivo consumo o ad alcuni tipi di proteine contenute nella carne dei mammiferi». A tal proposito Vincenzi sottolinea che «tutti i cibi cotti ad alte temperature contengono sostanze tossiche come l’acrilamide. Questo imbrunimento non enzimatico, noto come reazione di Maillard, coinvolge non solo carni alla griglia, ma anche la crosta del pane, la birra scura, i dolci e perfino la pizza».