Come noto, un uso eccessivo e costante di sale nelle abitudini alimentari provoca un incremento dei livelli della pressione arteriosa, conseguente all’aumento della ritenzione idrica. Quest’ultimo, fenomeno attraverso cui, in presenza di elevati livelli di sale, i liquidi corporei non vengono facilmente espulsi. Ne consegue che, con l’incremento della quantità dei liquidi corporei, sul lungo andare, aumenta il rischio di insorgenza di patologie cardio-cerebrovascolari correlate all’ipertensione arteriosa. Tra queste, infarto del miocardio e ictus cerebrale. In aggiunta a ciò, è stato evidenziato in diversi studi che l’elevato consumo di sale è associato a malattie cronico-degenerative tra cui tumori dell’apparato digerente, osteoporosi e malattie renali. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al fine di prevenire tali patologie, raccomanda un consumo massimo di 5 grammi di sale al giorno, ovvero 2 grammi di sodio al giorno. Tuttavia, considerato che gran parte del sale alimentare è presente negli alimenti prodotti industrialmente presenti sul mercato, è molto facile andare oltre tale raccomandazione.
Per mantenere alta l’attenzione sulla problematica, ogni anno ricorre la Settimana mondiale per la riduzione del consumo di sale che nell’edizione del 2019 si tiene dal 4 al 10 marzo. Per tale occasione, la World Action on Salt & Health (Wash), associazione con partner in 100 Paesi dei diversi continenti istituita nel 2005 con il fine di migliorare la salute delle popolazioni attraverso la graduale riduzione dell’introito di sodio, sensibilizza i produttori di alimenti al fine di ridurre il sale nei loro prodotti, ma anche i consumatori finali con una serie di suggerimenti utili a contribuire alla riduzione del consumo di sale.
Ciò attraverso cinque azioni concrete che riguardano principalmente le abitudini alimentari. In particolare, al fine di ridurre il consumo di sale, l’associazione consiglia di usare «erbe, spezie, aglio e agrumi al posto del sale per aggiungere sapore al tuo cibo». Inoltre, «scola e risciacqua verdure e legumi in scatola e mangia più frutta e verdura fresca, controlla le etichette prima di acquistare per aiutarti a scegliere prodotti alimentari meno salati». «Usa gradualmente meno sale nelle tue ricette preferite – le tue papille gustative si adatteranno», ed infine «togli dalla tavola sale e salse salate in modo che i più giovani della famiglia non si abituino ad aggiungere il sale».
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
La vitamina D potrebbe avere un ruolo cruciale anche nella regolazione della plasticitàe del cervello. È quanto rilevato da uno studio curato dall’Università del Queensland, negli Stati Uniti d’America, pubblicato sulla rivista scientifica Brain Structure and Function and Trends in Neuroscience. In particolare, lo studio rivela perché la vitamina D è vitale per la salute del cervello e come una sua eventuale carenza porterebbe a problemi tra cui depressione e schizofrenia.
«Circa un miliardo di persone nel mondo è affetto da carenza di vitamina D e c’è un legame tra la sua carenza e problemi cognitivi». A diffondere i dettagli dello studio è Thomas Burne, professore associato all’Università del Queensland e responsabile dello studio. «Sfortunatamente, non si comprende ancora in che modo la vitamina D influenza la struttura cerebrale – spiega Burne – e quindi non è ancora chiaro perché questa carenza causa problemi».
In sostanza, il gruppo di lavoro di Burne ha scoperto che i livelli di vitamina D intaccano una sorta di “scaffalatura” nel cervello, chiamate reti perineuronali. «Queste reti – evidenzia Burne – formano una forte maglia attorno determinati neuroni, e così facendo stabilizzano i contatti che queste cellule fanno con altri neuroni».
Per arrivare a quanto scoperto, i ricercatori hanno rimosso la vitamina D dalla dieta di un gruppo di topi adulti e, dopo 20 settimane, hanno trovato un declino significativo della loro abilità nel ricordare. Ciò confrontando tali risultati con un gruppo di controllo. Di qui, Burne ha evidenziato che il gruppo che ha una carenza di vitamina D ha una riduzione pronunciata delle reti perineuronali nell’ippocampo, una regione del cervello cruciale alla formazione della memoria. Inoltre, spiega Burne, «c’è stata anche una drastica riduzione sia del numero sia della forza delle connessioni tra i neuroni in quella regione».
Le corsie dei negozi sono spesso rifornite con prodotti che promettono di uccidere i batteri. Spesso le persone usano quei prodotti che promettono di “uccidere i batteri”. Tuttavia, un recente studio della Washington University in St. Louis, pubblicato sulla rivista scientifica “Antimicrobial Agents & Chemotherapy”, ha scoperto che i prodotti che si supponga uccidano i batteri, non fanno altro che renderli più forti e capaci di sopravvivere ai trattamenti antibiotici.
In particolare, riferisce lo studio, l’esposizione al “triclosan”, può inavvertitamente portare i batteri in uno stato nel quale sono capaci di tollerare concentrazioni normalmente letali di antibiotico, compresi quegli antibiotici che sono comunemente usati per trattare le infezioni del tratto urinario.
Il triclosan è l’additivo responsabile dell’azione “antibatterica”, usato in dentifrici, collutori, prodotti cosmetici, ma anche vestiti, giocattoli per bambini, carte di credito, e altri supporti, con l’intenzione di ridurre la carica batterica e la crescita dei germi.
Ebbene, il nuovo studio effettuato su topi di laboratorio, ha scoperto fino a che punto l’esposizione al triclosan limita la capacità dell’organismo di rispondere al trattamento antibiotico per l’infezione del tratto urinario, oltre che mostrare evidenze sul meccanismo cellulare che consente al triclosan di interferire con il trattamento antibiotico.
«I pazienti diabetici hanno un rischio maggiore del 35% di avvertire mal di schiena e del 24% maggiore di avere dolore al collo, rispetto a coloro che non hanno il diabete». È quanto emerge in sintesi da uno studio revisionale effettuato dai ricercatori dell’Università di Sydney, in Australia. La scoperta, basata su un’analisi di altri studi che comprovavano un legame tra diabete e mal di schiena o di collo, è stata pubblicata sulla rivista scientifica “Plos One”. Molti adulti ad un certo punto della loro vita provano mal di schiena, ma anche dolore al collo. Il diabete invece è una condizione cronica ed il tipo 2, non insulino-dipendente, riguarda 382 milioni di persone nel mondo.
«Non esistono sufficienti prove riguardo i motivi che stabiliscono il perché della correlazione tra diabete e mal di schiena o collo», spiega Manuela Ferreira responsabile dello studio. «Il diabete e il dolore alla schiena e al collo sembrano essere in qualche modo connessi», sottolinea Ferreira. Inoltre, spiega, «il diabete di tipo 2 e il mal di schiena e di collo hanno una forte correlazione con l’obesità e la mancanza di attività fisica, quindi sicuramente questa ricerca proseguirà per esaminare questi fattori nel dettaglio». «La nostra analisi giunge all’evidenza che il controllo del peso e l’attività fisica giocano un ruolo fondamentale per il mantenimento della salute». Lo studio, inoltre, ha evidenziato che i farmaci sul diabete agiscono sul dolore, possibilmente agendo sugli effetti dello zucchero nel sangue, ed anche questa connessione merita di essere approfondita.
I farmaci contenenti carbimazolo o tiamazolo sono comunemente usati nel trattamento dell’ipertiroidisimo, nella preparazione all’intervento di tiroidectomia subtotale, alla terapia con iodio-radioattivo, oltre che quando la tiroidectomia è controindicata o non consigliabile. In Italia gli unici farmaci in commercio sono quelli a base di tiamazolo (metimazolo), commercializzato con il nome di Tapazole®.
L’azienda Teofarma S.r.l., produttrice del farmaco, in accordo con l’Agenzia europea dei medicinali e l’Agenzia italiana del farmaco, evidenzia in una nota del possibile rischio di pancreatite acuta «in seguito all’assunzione di carbimazolo/tiamazolo». Per questo motivo, si legge, «nel caso in cui un paziente presenti pancreatite acuta, il trattamento con carbimazolo/tiamazolo deve essere interrotto immediatamente». Inoltre, prosegue la nota, «dato che la riesposizione potrebbe determinare il ripresentarsi della pancreatite acuta, con un più rapido tempo di insorgenza, questo medicinale non deve essere somministrato a pazienti con storia di pancreatite acuta in seguito all’assunzione di carbimazolo/tiamazolo».
Nella stessa nota le Agenzie sottolineano inoltre la necessità di rafforzare le avvertenze in merito alla contraccezione. Ciò perché «una nuova revisione dei risultati di studi epidemiologici e dei casi spontanei rafforza l’evidenza che il carbimazolo/tiamazolo sia sospettato causare malformazioni congenite quando somministrato durante la gravidanza, in particolare nel primo trimestre e ad alte dosi». Per questo motivo, «le donne in età fertile devono utilizzare misure contraccettive efficaci durante il trattamento con carbimazolo/tiamazolo». «L’ipertiroidismo nelle donne in gravidanza – specifica la nota – deve essere trattato adeguatamente per prevenire gravi complicazioni nella madre ed nel feto». Non solo. «Il carbimazolo/tiamazolo deve essere somministrato durante la gravidanza soltanto a seguito di una rigorosa valutazione del rapporto beneficio/rischio per ogni singolo caso e solo alla dose efficace più bassa senza somministrazione supplementare di ormoni tiroidei». Infine, «se il carbimazolo/tiamazolo viene utilizzato durante la gravidanza, si raccomanda un monitoraggio attento della madre, del feto e del neonato».
Per ulteriori dettagli in merito a questa informativa è possibile consultare la nota integrale, pubblicata sul sito www.aifa.gov.it, oppure rivolgersi al proprio medico curante o farmacista di fiducia.
