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L’Oms sulla dipendenza da videogames: è malattia mentale

I tempi cambiano, le patologie anche. E così, entra nella International Classification of Diseases (ICD), l’elenco ufficiale delle malattie appena aggiornato, la dipendenza da videogames. Nell’epoca dei social network e dell’alienazione sempre più esasperata, soprattutto quella giovanile, è molto facile imbattersi in soggetti che preferiscono rifugiarsi nella realtà virtuale, piuttosto che affrontare la vita vera. E così, a colpi di smartphone e di joystick, si consumano tragedie molto spesso nascoste, che lasciano le famiglie in condizioni di impotenza nella gestione della criticità. Al pari con l’alcolismo e la ludopatia, questo tipo di dipendenza, può comportare problematiche sociali anche a livello estremamente elevato. Fino a poco tempo fa, era considerata al pari di un fastidioso vizio, e solo recentemente è stata riconosciuta come un problema sociale, soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone. Il disturbo di gioco  è dunque una delle “new entry”, segnalate dalla stessa Oms nella nota in cui presenta l’Icd-11: la voce ‘gaming disorder’ si riferisce a “un modello di comportamento di gioco persistente o ricorrente (gioco digitale o videogame), che può essere online su Internet, o offline. È un disturbo che si manifesta con 3 particolari condizioni: la perdita di controllo sul gioco (inizio, frequenza, intensità, durata, risoluzione, contesto); la crescente priorità che viene data a questa attività e che porta a una situazione in cui il gioco ha la precedenza su altri interessi della vita e delle attività quotidiane; e la continuazione o escalation della condotta di gioco nonostante il verificarsi di conseguenze negative”.Secondo la nuova classificazione, il modello comportamentale del ‘gaming disorder’ è di gravità sufficiente a causare una compromissione significativa nelle aree di funzionamento personali, familiari, sociali, educative, professionali o di altro tipo. Lo schema del comportamento di gioco può essere continuo o episodico e ricorrente e deve essere evidente nell’arco di un periodo di almeno 12 mesi per poter assegnare una diagnosi, sebbene la durata possa essere abbreviata se tutti i requisiti diagnostici sono soddisfatti e i sintomi siano gravi.Fra le novità dell’Icd-11, l’Oms elenca anche alcuni miglioramenti rispetto alle versioni precedenti: per la prima volta il manuale è completamente elettronico e ha un formato molto più ‘user-friendly’. E c’è stato un “coinvolgimento senza precedenti” degli operatori sanitari, si sottolinea. Il team che si è occupato della nuova stesura nel quartier generale dell’Oms ha ricevuto oltre 10mila proposte di revisione.Il sistema di classificazione delle patologie, che ad oggi conta 55mila malattie e cause di morte, “ci consente di capire in modo migliore che cosa conduca le persone alla malattia o alla morte, così da agire in tempo per prevenire la sofferenza e salvare vite umane”, ha dichiarato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms. La nuova edizione verrà presentata agli stati membri dell’Oms in occasione dell’Assemblea mondiale della sanità, in programma a maggio del prossimo anno, mentre per la sua adozione, dice in una nota l’Oms, bisognerà aspettare gennaio 2022.

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Cancro al seno, la vitamina D potrebbe prevenirlo

Che le vitamine facciano bene è un dato di fatto. Ce lo raccontavano i nonni e i nostri genitori, ce l’hanno detto i medici e ce lo ripete anche la scienza. Gli studi che si sono avvicendati a rafforzare questa tesi sono diversi e proprio degli scorsi giorni è l’ultima notizia, che assocerebbe una minore incidenza del tumore al seno in soggetti con elevati livelli di vitamina D nell’organismo. La ricerca è stata condotta da alcuni studiosi della University of California San Diego School of Medicine e pubblicato sulla rivista PLOS ONE. L’indagine ha coinvolto circa 5 mila partecipanti di età intorno ai 55 anni, sane, divise in due campioni. I dati utilizzati nell’analisi sono stati raccolti nel periodo 2002-2017 e la salute dei partecipanti è stata monitorata per un periodo medio di 4 anni. Nello specifico, i ricercatori hanno cercato le eventuali associazioni tra il rischio di sviluppare il carcinoma mammario nelle donne e la concentrazione nel siero di 25-idrossivitamina D (25 (OH) D), un importante biomarcatore di vitamina D. Durante il periodo in cui sono stati condotti gli studi, sono stati rilevati 77 nuovi casi di cancro al seno. «Il tasso di incidenza del cancro al seno aggiustato per l’età era di 512 casi per 100.000 persone-anno nella coorte raggruppata», precisano i ricercatori. Ma, l’analisi dei dati raccolti ha rivelato che le persone con concentrazioni più elevate nel sangue del biomarcatore della vitamina D erano esposte a un rischio significativamente più basso di cancro al seno. «Abbiamo riscontrato che i partecipanti con livelli ematici di 25 (OH) D superiori a 60 nanogrammi per millilitro (ng/ml) avevano un quinto del rischio di cancro al seno rispetto a quelli con meno di 20 ng/ml», si legge nell’articolo. Il dottor Garland e colleghi, hanno stimato che il livello minimo sano di 25 (OH) D nel sangue dovrebbe essere di circa 60 nanogrammi per millilitro, che è molto più della concentrazione di 20 nanogrammi per millilitro raccomandata dall’Accademia Nazionale di Medicina. A livelli crescenti di vitamina D, dunque, il rischio di sviluppare un tumore si riduce progressivamente.

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Cancro al seno in stadio precoce, studio conferma che potrebbe non essere necessaria chemioterapia

Molte donne con cancro seno in stadio precoce che ricevono la chemioterapia secondo gli standard attuali, potrebbero non averne bisogno. E’ quanto confermato da uno studio internazionale che potrebbe avere ripercussioni sull’intero trattamento medico.
E’ quanto riportato dal giornale statunitense New York Times, che cita i risultati dello studio “Adjuvant Chemotherapy Guided by a 21-Gene Expression Assay in Breast Cancer” https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1804710, pubblicato sulla rivista scientifica “The New England Journal of Medicine”.
Secondo il Dr. Mayer, del Vanderbilt University Medical Center, tra gli autori dello studio, grazie ai risultati di questa ricerca, «possiamo risparmiare migliaia e migliaia di donne dal prendere trattamenti tossici di cui non beneficerebbero». L’autore aggiunge inoltre che lo studio «può cambiare gli standard delle cure».
Lo studio ha scoperto che grazie a dei test sui campioni di tumore c’è la possibilità di identificare le donne che con sicurezza possono saltare la chemioterapia e somministrare solo un farmaco che inibisca l’azione degli ormoni estrogeni o fermi il corpo dal produrli. Il farmaco che agisce sul blocco degli ormoni, tamoxifene e correlati, sono chiamati “terapia endocrina” e rappresentano parte essenziale del trattamento per gran parte delle donne perché abbassa il rischio di recidive, nuovi tumori al seno e morte.
Gli studiosi tuttavia hanno ritenuto evidenziare con una nota precauzionale, che i dati hanno dimostrato che alcune donne sui 50 e più giovani devono fare la chemioterapia anche se i test genetici dicono il contrario. Ancora non è chiaro, ma in questi casi è necessario un consulto specialistico e personalizzato.

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Salute dei cani, ecco i consigli per aiutarli contro il caldo

Soltanto chi ha – o ha avuto – un amico a quattro zampe, può capire quanto sia forte il legame che si instaura tra essere umano ed animale. Spesso infatti viene considerato come il “miglior amico dell’uomo”.
Come ogni essere umano però, il cane ha bisogno di cure particolari, soprattutto nel periodo estivo, dove le alte temperature potrebbero portarlo a soffrire e, nei casi più estremi, condurlo ad un vero e proprio colpo di calore.
Sebbene i cani non sudano attraverso la pelle, bensì “dalla lingua”, i nostri amici a quattro zampe possono essere vittime di colpo di calore che si manifesta con comportamenti strani, respiro affannoso, spossatezza ed evidente stato confusionale. In questo caso la soluzione è portarlo subito dal veterinario, tuttavia, è bene prevenire l’insorgenza del colpo di calore con dei piccoli accorgimenti.
Proprio per questo Altroconsumo ha pubblicato una serie di consigli utili da mettere in pratica per favorire la salute ed il benessere del cane.
Si parte con la profilassi, ovvero la prevenzione dall’attacco di zanzare, pulci e zecche, principali nemici del cane. Utilizzare un prodotto repellente, sulla base di uno schema suggerito dal veterinario, protegge il cane dalla filaria, grave patologia che colpisce i cani, di qualsiasi razza, genere ed età.
Successivamente, così come per gli esseri umani, il consiglio è di bere molta acqua. Rendere quindi sempre disponibile, anche in più punti, acqua fresca, non esposta al sole, cambiandola di tanto in tanto. Quando si esce sarebbe utile portare con se dell’acqua ed una ciotola.
Se si va al mare, appena dopo il bagno, sciacquarlo con acqua dolce. L’acqua del mare infatti è particolarmente aggressiva per la pelle e per il pelo del cane, soprattutto se si asciuga al sole. Se il cane gioca con l’acqua dolce, o se vogliamo rinfrescarlo, evitare di far bagnare testa ed orecchie, che sono molto sensibili.
Per le passeggiate è consigliabile evitare percorsi con asfalto a causa delle alte temperature che potrebbero far male ai polpastrelli, preferendo sentieri, parchi e giardini, evitando di uscire nelle ore più calde della giornata.
Mai lasciare in auto il cane, seppur con i finestrini aperti. Questa pratica oltre ad essere illegale e perseguibile per maltrattamento, espone il cane ad altissime temperature, anche in giornate che apparentemente potrebbero sembrare fresche. Se si dovesse notare un cane chiuso in auto, chiamare immediatamente il 112.
Infine, attenzione alla tosatura. Se a primo avviso potrebbe sembrare utile tosare il cane, potrebbe essere dannoso perché lo priva di uno strato di protezione esponendolo al rischio di scottature e di eritemi solari. Per i cani a pelo lungo può essere utile accorciare il manto per evitare un ambiente favorevole a parassiti e sporco.

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Consumo di alcol e salute, studio britannico: «Soglie di rischio da rivedere»

Nel mese di maggio 2018 si è svolto presso l’Istituto Superiore di Sanità l’Alcohol Prevention Day (Apd), giornata nell’ambito del mese di prevenzione alcologica.
L’Alcohol Prevention Day è stata «l’occasione per discutere sulle tematiche alcol-correlate e sulle problematiche emergenti connesse al fenomeno dell’uso dannoso e rischioso di bevande alcoliche, al fine di favorire l’adozione di politiche e strategie sull’alcol eque, efficaci ed efficienti e di politiche di prevenzione e di controllo, di tutela della salute, di sicurezza, e soprattutto di protezione dei più deboli».
A distanza di qualche giorno sempre i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità hanno reso noto l’avvenuta pubblicazione di uno studio sulla rivista scientifica “The Lancet”.
Lo studio in oggetto ha avuto l’obiettivo di ragionare sulle cosiddette “soglie di rischio” del consumo di alcol, limiti al di sopra dei quali l’alcol è considerato nocivo per la salute.
Lo studio ha avuto come obiettivo l’individuazione una soglia di consumo di alcol, su base settimanale, associata al minor rischio di mortalità per cause dovute ad eventi cardiovascolari, oltre che di stabilire quali fossero le conseguenze sulla salute di 100 grammi di alcol a settimana.
E’ da chiarire che il valore di 100 grammi non si riferisce al volume in litri dell’alcolico bevuto, ma alla quantità di alcol in grammi contenuto in esso.
A titolo di esempio, un vino con gradazione alcolica del 12,5% ha 10 grammi di alcol per ogni 100 ml di liquido. Ne consegue che 100 grammi di alcol equivalgono all’incirca ad un litro di vino.
Questi valori percentuali variano a seconda dell’alcolico bevuto: alcolici a più alta gradazione contengono una quantità maggiore di alcol per litro di liquido.
In questo studio è stata evidenziata una stretta correlazione tra quantità di alcol assunto e mortalità, rendendo evidente che il rischio di mortalità si colloca ben al di sotto dei limiti attuali definiti dalle linee guida internazionali.
Nello studio è stato inoltre visto che il consumo di 100 grammi di alcol a settimana (pari ad 1 litro di vino con una gradazione al 12,5%), comporta, rispetto al non consumo, un aumento significativo del rischio di ictus, di malattia coronarica, di infarto acuto del miocardio, di scompenso cardiaco, di ipertensione arteriosa con esito fatale e di aneurisma.
I ricercatori hanno constatato che il consumo di alcol porta ad una riduzione dell’attesa di vita, a partire dai 40 anni, di 6 mesi in meno per chi consuma 100-200 grammi di alcol a settimana (circa 1-2 litri di vino), 1-2 anni in meno per chi consuma 200-350 grammi di alcol a settimana (circa 2-3,5 litri di vino) e, per chi supera i 350 grammi di alcol a settimana (più di 3,5 litri di vino), la riduzione dell’attesa di vita si attesta a 4-5 anni in meno rispetto a chi non consuma alcol.
Un altro dato significativo è quello che non esiste un limite minimo al di sotto del quale si annullano gli effetti dannosi sull’organismo dell’alcol. Proprio per questo i ricercatori hanno suggerito la necessità di rivedere i limiti massimi di consumo di alcol raccomandati dalle linee guida.