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Sigaretta elettronica in gravidanza: quali sono i rischi?

Per smettere di fumare sigarette di tabacco si tenta la strada delle sigarette elettroniche. È questa la ragione più frequente che spinge all’acquisto delle sigarette aromatizzate elettroniche, più economiche delle altre e prive di monossido di carbonio. Ma una fumatrice in dolce attesa che non riesce a smettere di fumare può fare questa stessa scelta senza mettere a rischio la sua salute e quella del bambino? È vero che le sigarette elettroniche possono aiutare a ridurre il numero di sigarette fumate quotidianamente, ma il rischio più alto è quello di tornare a fumare sigarette di tabacco all’indomani del parto.

Donne che fumano in gravidanza: quante sono?. Secondo gli ultimi dati pubblicati dalla Fondazione Veronesi si stima che, su quasi 5 mila donne intervistate in gravidanza, il 23% ha dichiarato di non avere mai smesso di fumare; il 70% afferma di averlo fatto, sebbene il 18% ammetta di aver ripreso a fumare dopo tre mesi dal parto mentre il 30% dopo un anno. A ciò si aggiunge che il numero di fumatrici in gravidanza potrebbe essere assai superiore ai dati raccolti ufficialmente.

Alternative alle sigarette.

In alternativa alle sigarette di tabacco non esistono soltanto le sigarette elettroniche. In commercio si trovano prodotti sostitutivi a base di nicotina come cerotti, gomme da masticare, inalatori e spray. Il cerotto, che rilascia nicotina in modo continuativo, è consigliato ai cosiddetti fumatori accaniti. Tuttavia non funziona come prodotto sostitutivo alle sigarette classiche nel caso in cui il fumatore manifesti un desiderio improvviso di accendersi una sigaretta. In circostanze simili l’assenza della sigaretta vera e propria potrebbe essere almeno in parte compensata da una gomma da masticare, da una caramella oppure da uno spray sublinguale a base di nicotina. Per le donne in gravidanza che hanno smesso di fumare durante la gravidanza ma sono ancora fortemente dipendenti dal fumo è sempre consigliabile un supporto di tipo psicologico.

Sigarette elettroniche e cerotto alla nicotina in gravidanza.

Le sigarette elettroniche e i cerotti alla nicotina possono essere utilizzati come validi alternative alle sigarette di tabacco anche in gravidanza? In realtà questi due prodotti sostitutivi delle sigarette classiche non sono esattamente interscambiabili. Il cerotto è un dispositivo medico che comporta una totale rinuncia al fumo di sigaretta al tabacco. Le sigarette elettroniche non sono dispositivi medici sebbene consentano di mantenere viva la tipica gestualità rituale del fumatore. In linea generale, chi fuma sigarette elettroniche per diminuire il numero di sigarette al tabacco tende a fumarle entrambe, alternandole nell’arco della giornata o della settimana.

Fumare durante l’allattamento.

Fumare sigarette elettroniche in gravidanza può portare a riprendere il vizio del fumo da tabacco dopo il parto, quindi anche in allattamento. La nicotina permane per alcune ore nel latte materno, unico alimento assunto dal neonato nei primi mesi di vita. Di conseguenza, l’assunzione di grandi quantità di latte contaminato da nicotina in proporzione al peso ridotto del bambino, lo pone a rischio di un’intossicazione nicotinica e anche di dipendenza. Nel caso in cui non si riesca a smettere di fumare nemmeno durante l’allattamento, meglio farlo lontano dalle poppate, almeno un’ora e mezza prima di allattare il piccolo.

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Multivitaminici negli anziani: migliorano memoria e capacità cognitive

Una dieta sana integrata con l’assunzione giornaliera di un multivitaminico per un periodo prolungato di 3 anni consecutivi ha migliorato la salute cognitiva globale ma anche la memoria episodica degli anziani. Nessun beneficio, invece, è stato ottenuto dall’assunzione quotidiana di un integratore a base di estratto di cacao. A dimostrarlo un ampio studio condotto dall’Università Wake Forest della Caoline del Nord, in collaborazione con il Brigham e il Women’s Hospital di Boston, pubblicato sulla rivista scientifica Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association.

I benefici dei multivitaminici negli anziani.

I ricercatori hanno stimato che tre anni di integrazione multivitaminica in soggetti di età media di 73 anni si sono tradotti approssimativamente in un rallentamento del 60% del declino cognitivo (circa 1,8 anni). Lo studio ha messo alla prova lo stato cognitivo, la capacità di ricordare parole, storie, intervalli numerici e la fluidità verbale dei partecipanti. I benefici sono stati relativamente più pronunciati nei soggetti con malattie cardiovascolari significative, il che è importante perché sono proprio loro quelli più a rischio di deterioramento e declino cognitivo con l’avanzare dell’età.

Ricerca scientifica e malattie senili.

L’Alzheimer e la demenza senile affliggono più di 46 milioni di persone nel mondo. Secondo l’Alzheimer’s Association, più di 6,5 milioni di americani vivono con il morbo di Alzheimer e 1 anziano su 3 muore a causa della malattia o di un’altra forma di demenza. “C’è un urgente bisogno di proteggere gli anziani da queste malattie e di alleggerire, di conseguenza, anche il pesante carico sociale che queste comportano” ha affermato Laura D. Baker, professoressa di gerontologia e medicina geriatrica presso la Wake Forest University School of Medicine, nonché una delle ricercatrici dello studio sul rapporto tra multivitaminici e anziani.

Integratori di vitamine e senilità: i benefici vanno approfonditi. “È troppo presto per raccomandare l’integrazione quotidiana di multivitaminici per prevenire il declino cognitivo”, ha detto Baker. “Sebbene questi risultati preliminari siano promettenti, sono necessarie ulteriori ricerche in un gruppo di persone più ampio e diversificato. Inoltre, abbiamo ancora del lavoro da fare per capire meglio perché il multivitaminico potrebbe giovare all’attività cognitiva degli anziani”. Questo studio era infatti di tipo osservazionale: i risultati ottenuti vanno dunque confermati o meno da ulteriori ricerche e approfondimenti. Le prove a sostegno dei benefici cognitivi degli integratori multivitaminici sono al momento contrastanti. La scelta migliore in questi casi resta quella di rivolgersi al proprio medico di fiducia circa l’opportunità di integrare la propria alimentazione quotidiana o quella di un familiare anziano con multivitamine e minerali.

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Il ruolo degli antidepressivi nella gestione della depressione

Sul mensile statunitense Psychiatric Times lo scorso mese è stato pubblicato un articolo intitolato “Serotonin or Not, Antidepressants Work”, scritto a quattro mani da Ronald W. Pie e George Dawson, dottori in psichiatria e professori in psicofarmacologia in diverse università USA. I due autori ribattono a un recente studio britannico in cui viene messa in discussione l’utilità degli antidepressivi, se non quella di “intorpidire le emozioni”. Da qui si è aperto un dibattito in Rete sull’origine della depressione stessa, sul ruolo della serotonina e sui farmaci utilizzati per curarla.

Non esiste una “teoria della serotonina”.

Pie e Dawson ricordano che non è mai esistita una teoria della serotonina in base alla quale un suo squilibrio geneticamente/costituzionalmente inteso porti in tutti i casi alla depressione. È ugualmente concepibile che le prime esperienze del neonato o del bambino possano causare cambiamenti biochimici e che questi possano esporre alcuni individui a depressione in età adulta. A fronte di una diagnosi di disturbo depressivo non possono mai essere esclusi fattori biochimici, fisiologici e psicologici concomitanti.

Serotonina e casi di depressione.

Da anni ormai gli psichiatri sono consapevoli che l’eziologia della depressione e di altri disturbi dell’umore non può essere spiegata esclusivamente in base a un unico neurotrasmettitore: serotonina, noradrenalina o qualche altra ammina biogenica. Basti pensare che il cervello contiene da 50 a 100 neurotrasmettitori: uno solo di questi non può spiegare una malattia così complessa come la depressione (né ci sono elementi scientifici che lo dimostrino). Le ipotesi e gli studi sui disturbi dell’umore si sono estesi ben al di là della serotonina, così come la ricerca e la produzione farmacologica di antidepressivi. Per più di 40 anni il paradigma operativo adottato in psichiatria è stato di tipo biopsicosociale, vale a dire che le cause della depressione possono essere molteplici e di varia natura. Michael Bloomfield, ricercatore all’University College London: “Non credo di aver incontrato scienziati o psichiatri seri che pensino che tutti i casi di depressione siano causati da un semplice squilibrio chimico della serotonina. Ciò che resta possibile è che per alcune persone con determinati tipi di depressione i cambiamenti nel sistema della serotonina possano contribuire ai loro sintomi”.

L’efficacia degli antidepressivi.

Gli antidepressivi servono? Migliorano le condizioni di un malato? L’efficacia degli antidepressivi è confermata da studi clinici randomizzati e controllati. Quindi la risposta è sì, sono utili e ha senso impiegarli nel trattamento acuto degli episodi depressivi maggiori da moderati a gravi. Un trattamento antidepressivo dovrebbe essere intrapreso in modo conservativo, monitorato da vicino e considerato solo come una singola componente di un approccio biopsicosociale completo nei confronti della depressione, che generalmente include la terapia della parola. Pertanto, i pazienti dovrebbero essere istruiti su tutte e tre le componenti dei disturbi dell’umore: biologico, psicologico e socioculturale.

Uso prolungato di antidepressivi.

Sull’uso a lungo termine di antidepressivi (ad esempio per diversi anni consecutivi) il quadro si fa più complicato poiché al momento si hanno molte meno prove scientifiche sulla loro efficacia in trattamenti prolungati anche per decenni. Allo stesso modo risulta essere altrettanto delicata la questione della sospensione dell’uso a lungo termine di questi farmaci. Ciò detto, sostengono i due psichiatri su Psychiatric Times, la discussione rischio/beneficio riguardante gli antidepressivi (e altri trattamenti biologici in psichiatria) dovrebbe essere affrontata nello stesso modo in cui il medico affronterebbe qualsiasi altro intervento medico serio.

Depressione: un disturbo complesso ed eterogeneo.

La depressione è un disturbo complesso ed eterogeneo con cause e fattori di rischio biologici, psicologici e socioculturali. Storicamente gli psichiatri non hanno mai spiegato la depressione clinica esclusivamente in termini di riduzione della serotonina o di un altro neurotrasmettitore specifico. Molti farmaci nella medicina clinica funzionano attraverso meccanismi sconosciuti o multipli, come fanno gli antidepressivi, e questo non ne pregiudica la sicurezza, l’efficacia o l’approvazione per l’uso medico. I risultati di studi controllati con placebo offrono ampie prove che gli antidepressivi serotoninergici sono sicuri ed efficaci nel trattamento degli episodi di depressione maggiore acuti.

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Stili di vita salutari, costruire una vita sana giorno per giorno

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la salute è «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità». Per stare bene e prevenire molte delle patologie più diffuse, è fondamentale curare ognuno di questi aspetti, che sono anche strettamente connessi tra loro. La prima raccomandazione è quindi quella di bilanciarne la propria alimentazione, evitando sia eccessi sia carenze. Nel vademecum “Alimentazione 11 e lode”, il ministero della Salute indica una serie di regole base da seguire per mantenere una dieta corretta. Il documento sollecita a «osservare un’alimentazione varia ed equilibrata sia sul piano qualitativo che quantitativo, non saltare la prima colazione, consumare giornalmente quattro-cinque porzioni di frutta e verdura, bere almeno un litro e mezzo di acqua al giorno, variare gli alimenti anche nei colori, non eccedere nei condimenti, limitare il consumo di sale, l’assunzione di dolci, bevande zuccherate e alcoliche, leggere le etichette degli alimenti».

L’attività fisica allunga la vita.

Un altro pilastro che non può mancare in uno stile di vita sano è l’attività fisica. Basti pensare che secondo l’Oms, l’inattività è responsabile di milioni di morti ogni anno, circa il 10% dei decessi totali. Per l’Organizzazione, fare attività fisica significa «interagire con il proprio ambiente attraverso le varie forme di movimento, a tutte le età». L’Oms ricorda inoltre che «esiste un legame diretto tra la quantità di attività fisica e la speranza di vita, ragione per cui le popolazioni fisicamente più attive tendono a essere più longeve di quelle inattive. Il concetto di attività fisica è molto ampio e comprende tutte le forme di movimento che vengono realizzate nei vari ambiti di vita, lavorativa e non lavorativa (cura del giardino, lavori domestici, ecc.), gli spostamenti, l’attività di tipo ricreazionale (svolta per divertimento, per socializzare, per allenarsi). Per attività fisica s’intende qualunque movimento determinato dal sistema muscolo-scheletrico che si traduce in un dispendio energetico superiore a quello delle condizioni di riposo».

Curare la mente.

Senza dubbio mangiare sano e praticare un’attività fisica costante è già un ottimo punto di partenza per assicurarsi anche benessere psicologico. Diverse carenze nutrizionali, anche a livello di vitamine e sali minerali, hanno un grande impatto sulla sfera mentale, per cui accertarsi di assumere correttamente tutti i principi nutritivi è fondamentale. Fare movimento, poi, è un modo ottimale di produrre endorfine, sostanze che inducono uno stato di benessere e serenità. Al benessere psicologico concorrono poi altri fattori. L’Oms lo definisce infatti come «una condizione in cui l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni». Lavorare ogni giorno per migliorare ognuna di queste aree, anche chiedendo il supporto degli specialisti se si è in difficoltà, garantisce il raggiungimento di un buon livello di benessere mentale ed emotivo.

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Paura di fallire: l’atychifobia

La paura del fallimento può manifestarsi come una vera e propria fobia: l’atychifobia, dal greco “atyches” ovvero “sfortunato”. Coloro che soffrono di atychifobia tendono a evitare qualsiasi situazione o scenario in cui intravedono un possibile fallimento, per esempio un esame o un colloquio di lavoro. Può anche mostrarsi come paura di fallire in una relazione affettiva, nel lavoro o di essere considerati un fallimento agli occhi degli altri.

Atychifobia: una paura che si autoavvera.

Spesso l’atychifobia è una paura che si autoavvera. Avere molta paura di sostenere un esame all’università, per esempio, può portare a rinunciare a sostenere anche gli esami successivi, fino a rinunciare del tutto a laurearsi. Avere paura di fallire può sfociare in diversi problemi emotivi e psicologici tra cui la vergogna, la depressione, l’ansia, gli attacchi di panico o bassi livelli di autostima. In linea generale, può influenzare negativamente il rendimento scolastico, lavorativo o le relazioni sociali.

L’atychifobia non è la paura dell’imperfezione.

L’atychifobia è cosa diversa dall’atelofobia, la paura delle imperfezioni. Hanno degli aspetti in comune ma si tratta di condizioni psicologiche differenti. L’atelofobia porta al perfezionismo estremo, senza compromessi, in una ricerca continua e ossessiva del successo in qualsiasi ambito della vita (studio, lavoro, sport, relazioni personali, società,…). Chi ha paura di fallire si concentra sul fallimento e si trova ad affrontare attacchi di panico e forti preoccupazioni per quel che potrebbe accadere qualora dovesse fallire.

Le cause dell’atychifobia.

Alcune delle cause che possono scatenare questa fobia sono: Storia familiare: se in famiglia sono presenti disturbi di salute mentale come fobie, ansia o depressione, è più probabile soffrire di queste condizioni. Comportamento appreso: se da bambini e/o da ragazzi si cresce in un ambiente in cui il fallimento viene giudicato come qualcosa di inaccettabile così come sbagliare, l’atychifobia trova terreno fertile per sedimentarsi in giovane età ed esplodere da adulti. Altre fobie: a volte più fobie si verificano contemporaneamente. Ad esempio, un bambino con scolionofobia (paura della scuola) può anche soffrire di atychifobia. Oppure qualcuno affetto da rupofobia (paura dello sporco e dei germi) può sviluppare atychifobia se non riesce a sentirsi costantemente pulito. Esperienze traumatiche: chi ha subito abusi o punizioni severe a causa di un fallimento, potrebbe temere di subirne ancora in futuro in situazioni simili. Oppure potrebbe interpretare un fallimento passato come la causa di un evento tragico, per esempio la morte di un familiare o di un amico.

Sintomi dell’atychifobia.

Paura di svolgere compiti semplici al lavoro, a casa o a scuola. Rabbia, irritabilità. Ansia di essere giudicati dagli altri. Depressione, tristezza. Pessimismo (visione negativa della vita). Tendenza a procrastinare compiti considerati impegnativi. Inclinazione a rompere le relazioni affettive (famigliari, amicali, amorose). Riluttanza ad accettare critiche o aiuti costruttivi. Gli attacchi di panico collegati all’atychifobia possono determinare anche: brividi, vertigini, stordimento, iperidrosi, nausea, tachicardia, dispnea, mal di stomaco, tremolio.

Come si cura l’atychifobia.

Terapia cognitivo comportamentale: la terapia cognitivo comportamentale è una forma di psicoterapia che aiuta a cambiare il proprio pensiero negativo sul fallimento. Uno specialista può aiutare a vedere ciò che si considerano “fallimenti” come opportunità positive per imparare qualcosa di nuovo e crescere. Inoltre, può suggerire strategie utili ad affrontare la paura e l’ansia attraverso specifiche tecniche di respirazione o la meditazione. Terapia dell’esposizione: esporsi gradualmente alla fonte della propria paura può aiutare a superarla. Ad esempio, lo psicoterapeuta potrebbe chiedere al paziente affetto da atychifobia di ricreare uno scenario in cui, in passato, sentiva di aver fallito. Reimmaginando e rivivendo quella situazione, ma questa volte nella cornice di un ambiente sicuro e di supporto, aiuta a vederla da un altro punto di vista (assenza di una reale minaccia o di un eventuale pericolo di fallimento presente e futuro). Farmaci: se l’atychifobia porta a soffrire di depressione o gravi stati d’ansia, una terapia farmacologica può agevolarne la gestione dei sintomi. Tuttavia, i farmaci non sono una terapia sempre indispensabile per guarire dalle fobie.