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Celiachia: molti italiani non sanno di averla

Che cos’è la celiachia? La celiachia è una malattia autoimmune causata dall’intolleranza a una specifica proteina del glutine, la gliadina, in persone geneticamente predisposte. Ingerendo del glutine, contenuto soprattutto in alimenti a base di frumento – come pane, pasta, pizza, biscotti, snack dolci e salati – l’intestino tenue tende ad infiammarsi e, a lungo andare, a cronicizzare l’infiammazione. I villi intestinali, deputati all’assorbimento dei nutrienti, vengono fortemente danneggiati fino a scomparire dalle pareti dell’intestino.

Ne derivano un malassorbimento intestinale generalizzato del cibo, deficit nutrizionale, rallentamento nella crescita (in bambini e adolescenti), diarrea. È facile immaginare come una mancata tempestiva diagnosi può mettere seriamente a rischio la salute delle persone celiache. Tuttavia è bene sottolineare che, a parità di predisposizione genetica nei confronti di questa malattia, solo il 3% della popolazione mondiale potenzialmente intollerante al glutine sviluppa la malattia nel corso della propria vita. Esistono infatti dei fattori scatenanti attualmente sconosciuti: si suppone che alcune malattie virali e l’ingestione di una certa quantità di glutine durante lo svezzamento possano favorire l’emergere della malattia, ma non vi sono ancora dati certi a riguardo.

In Italia si stima che i celiaci siano circa 600mila eppure molti non sanno nemmeno di essere malati. Sono state diagnosticate celiache 233.147 persone nel corso del 2020, in base a quanto riportato dall’ultima Relazione annuale al Parlamento sulla celiachia rilasciata dal ministero della Salute. Ciò significa che quasi 400.000 mila persone ignorano di essere celiache. Per di più, negli ultimi due anni, a causa della pandemia da COVID-19, numerose visite e svariati iter diagnostici sono stati cancellati o posticipati. Pertanto è assai probabile che i numeri registrati due anni fa siano solo indicativi della situazione e non offrano un quadro aggiornato sull’attuale diffusione della celiachia in Italia.

A partire dal 2005 questa intolleranza alimentare è stata dichiarata come “malattia sociale” e, a livello globale, è stata riconosciuta come quella più diffusa in tutti i Paesi del mondo. Per ora l’unica terapia possibile è una rigida dieta senza glutine. Secondo Giuseppe Di Fabio, presidente dell’Associazione Italiana Celiachia, «questa malattia è generalmente identificata con sintomi come diarrea e marcato dimagrimento, in realtà la celiachia può essere caratterizzata da un quadro clinico variabilissimo e non colpisce solo l’intestino, ma può coinvolgere tutto l’organismo». Conseguenti allo sviluppo della celiachia possono manifestarsi anche anemia, astemia, amenorrea, infertilità, aborti ricorrenti, ulcere alla gola, osteoporosi, dolori alle ossa, dermatiti.

Per Caterina Pilo, direttrice generale dell’Aic, «purtroppo il percorso che porta alla diagnosi è ancora difficoltoso e lungo. In media occorrono sei anni per ricevere la diagnosi di celiachia e i dati del 2020 ci confermano una diminuzione del tasso annuale dei nuovi celiaci a causa della pandemia. Per arrivare alla diagnosi correttamente è fondamentale non eliminare il glutine dalla propria dieta prima di aver completato tutti gli accertamenti, compresa la biopsia intestinale. Togliere il glutine prima di aver terminato gli accertamenti può falsare i risultati della diagnosi».

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Tumore al seno: un esame del sangue per testare l’efficacia delle cure

In uno studio tutto italiano è stato utilizzato un test del sangue per verificare l’efficacia della cura antitumorale adottata nelle 287 pazienti esaminate affette da cancro al seno metastatico ormonosensibile Her2 negativo. Lo studio, presentato nei giorni scorsi all’annuale Congresso della Società Americana di Oncologia Clinica (ASCO) di Chicago, ha coinvolto 47 centri oncologici ospedalieri distribuiti su tutto il territorio nazionale senza mai ricorrere a una TAC di controllo. Questo studio di medicina di precisione “va a individuare nel sangue specifiche informazioni” – spiega il responsabile della ricerca Michelino De Laurentiis, direttore del Dipartimento di Oncologia Senologica e Toracico-polmonare dell’Istituto Pascale di Napoli – “ovvero tracce del DNA tumorale circolante e un parametro biochimico (tirosinochinasi A)”.

Prima di iniziare la terapia standard, le pazienti partecipanti all’esperimento sono state sottoposte a un prelievo del sangue, ripetuto 15 giorni dopo. Verificando la presenza di due biomarcatori, cioè di due elementi che testimoniano la presenza della neoplasia nell’organismo, “al 15° giorno ci siamo resi conto che eravamo già in grado di suddividere le pazienti tra quelle altamente rispondenti alla terapia e quelle scarsamente rispondenti” sostiene De Laurentiis. “Il vantaggio, se questi dati saranno confermati, è innanzitutto che la cura non sarà più portata avanti per alcuni mesi per poi fare la TAC di controllo per comprenderne l’esito, ma già dopo15 giorni si potrà valutare se la terapia funziona e se non è così le pazienti possono essere indirizzate subito verso una cura alternativa”. Di conseguenza alla paziente “possono inoltre essere risparmiati tossicità ed effetti collaterali inutili.

Se i dati fossero confermati, con la biopsia liquida potremmo dunque sapere in netto anticipo quali tumori sono resistenti al trattamento”. Da questa nuova metodologia clinica trarrebbe vantaggio anche il Sistema Sanitario Nazionale, dato che non è invasiva e certamente rientra fra quelle a basso costo. De Laurentiis: “Ci concentreremo sulle pazienti risultate resistenti alla cura standard per capire se ci sono mutazioni particolari, per poter poi personalizzare la terapia proprio sulla base dei meccanismi di resistenza della paziente. Si va cioè, sempre di più, verso un’oncologia di precisione”. Pe il momento “siamo di fronte a dati preliminari – sottolinea Grazia Arpino, docente di Oncologia Medica all’Università Federico II di Napoli – e sono necessari ulteriori studi clinici. La loro utilità però potrebbe essere cruciale”. Nel 2020 in Italia sono stati stimati circa 55mila nuovi casi di tumore al seno, mentre sono oltre 37.000 le donne malate di neoplasia al seno.

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Difendersi dal caldo: il decalogo “salva vita” per anziani e fragili

Senior Italia-FederAnziani, la federazione della terza età, ha diffuso un decalogo anti-caldo pensato per proteggere anziani e persone fragili. Secondo la sigla, infatti, «non bisogna abbassare la guardia e seguire queste regole fondamentali per evitare il terribile bollettino di morti a cui siamo tristemente abituati». Tra le misure da mettere in atto «non uscire nelle ore più calde della giornata, ovvero dalle 12 alle 17», «bere almeno un litro e mezzo di liquidi al giorno, in modo da reintegrare le perdite quotidiane di sali minerali. Evitare bevande alcoliche, gassate, troppo zuccherate e troppo fredde. Non eccedere con caffè o tè».

A queste seguono consigli alimentari tra cui «consumare pasti leggeri. Preferire pasta, frutta, verdura, gelati alla frutta. Evitare cibi grassi e piccanti», ma anche «arieggiare l’ambiente dove si vive, anche con l’uso di un ventilatore, evitando di esporsi alla ventilazione diretta». Utile anche «tenere il capo riparato dal sole» e «indossare abiti leggeri, non aderenti, di colore chiaro e tessuti naturali perché le fibre sintetiche ostacolano il passaggio dell’aria».

Inoltre «non esporsi al sole in modo prolungato. Se, in seguito a un’eccessiva esposizione, dovesse insorgere mal di testa, fare impacchi con acqua fresca per abbassare la temperatura corporea» e «non restate all’interno di automobili parcheggiate al sole». Quanto alla terapia farmacologica in atto «non interrompere le terapie mediche, né sostituire i farmaci che si assumono abitualmente, di propria iniziativa. Consultare sempre il medico per ogni eventuale modifica delle cure che si stanno seguendo». Infine «se è possibile, è consigliabile andare in vacanza in località collinari o termali».

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Sali minerali: essenziale reintegrarli con acqua, frutta e verdura

L’Istituto superiore di sanità (Iss) definisce i sali minerali «sostanze inorganiche che, pur rappresentando complessivamente solo il 6,2% del peso corporeo, svolgono funzioni essenziali per la vita dell’uomo. Partecipano infatti ai processi cellulari come la formazione di denti e ossa, sono coinvolti nella regolazione dell’equilibrio idrosalino, nell’attivazione di numerosi cicli metabolici e costituiscono fattori determinanti per la crescita e lo sviluppo di tessuti e organi». Parliamo quindi di nutrienti di cui non possiamo fare a meno. L’organismo però non è in grado di sintetizzarli in modo autonomo e deve assimilarli attraverso l’acqua e gli alimenti, tenendo conto del fatto che i sali minerali non sono sempre totalmente “biodisponibili”, il che significa che spesso la quantità introdotta non corrisponde a quella che verrà assimilata. Per tale motivo, a volte, pur seguendo una dieta abbastanza equilibrata, può essere necessario ricorrere a integrazioni di uno o più sali minerali su consiglio del medico o del farmacista, che sapranno indicare il prodotto più efficace e sicuro da assumere. Anche gli integratori, infatti, possono avere effetti collaterali o interferire con terapie farmacologiche o parafarmaci, per cui la scelta della supplementazione da assumere deve essere effettuata da uno specialista della salute.

Di quali minerali abbiamo bisogno?.

I sali minerali si suddividono in due categorie, i macroelementi e gli oligoelementi (o microelementi). I primi sono quelli presenti nell’organismo in quantità discrete, al massimo di qualche grammo, come il calcio, il fosforo, il magnesio, il sodio, il potassio, il cloro e lo zolfo. In merito agli oligoelementi, che sono quelli presenti nell’organismo in dosi di qualche milligrammo o in tracce, va sottolineato che svolgono comunque funzioni biologiche molto importanti. Come spiega l’Iss, si possono suddividere in: «essenziali, la cui carenza compromette funzioni fisiologiche vitali (ferro, rame, zinco, fluoro, iodio, selenio, cromo, cobalto), probabilmente essenziali (manganese, silicio, nichel, vanadio) e potenzialmente tossici, in quanto possono provocare gravi danni all’organismo se presenti ad alte concentrazioni».

Come reintegrarli.

Se da un lato l’assimilazione dei sali minerali è facilitata dal fatto che, a differenza delle vitamine, questi non si alterano né si disperdono durante la cottura, dall’altro bisogna ricordare che vengono continuamente eliminati attraverso il sudore, le urine e le feci. E sebbene il loro fabbisogno per il corpo umano sia minimo, è comunque fondamentale prevederne una corretta assunzione quotidiana attraverso il proprio regime alimentare. La bevanda per eccellenza più ricca di sali minerali è naturalmente l’acqua, che va sempre consumata in abbondanti quantità, specie quando fa molto caldo. Se si trascorrono molte ore fuori casa, è quindi importante portare con sé una bottiglia o una borraccia d’acqua o accertarsi di potersela procurare facilmente. Occorre bere costantemente, senza aspettare di avere troppa sete, così da mantenersi sempre idratati e mai carenti di sali minerali. A questo scopo è bene consumare anche tanta frutta (compresa quella secca e in guscio) e verdura di ogni tipo. Anche carne, pesce e latticini contengono buoni quantitativi di sali minerali ed è quindi raccomandato variare spesso gli alimenti per non rischiare carenze o eccessi di nutrienti.

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Bambini vegetariani vs bambini carnivori: simili nella crescita ma non nel peso

Lo studio pubblicato sulla rivista Pediatrics ha valutato, fra gli altri parametri, anche lo stato di peso e l’altezza di quasi 9.000 bambini, di età compresa fra i 6 mesi e gli 8 anni. Le informazioni sulle diete seguite dai partecipanti (vegetariani/vegani, non vegetariani) sono state fornite dai genitori. Ad ogni visita di controllo sullo stato di salute dei bambini venivano misurati indice di massa corporea, peso, altezza, livelli di colesterolo, trigliceridi, livelli di vitamina D e di ferro.

In base a questi valori, i ricercatori non hanno rilevato sostanziali differenze tra bambini vegetariani e non vegetariani. Tuttavia i primi avevano quasi il doppio delle probabilità di essere sottopeso rispetto ai bambini carnivori. Il che può significare che la dieta non è opportunamente bilanciata e dunque insufficiente a sostenere la crescita di un bambino. Questi risultati incoraggiano “la necessità di un’attenta pianificazione dietetica per i bambini sottopeso quando si considerano le diete vegetariane”, ha affermato il dottor Jonathon Maguire, autore principale dello studio e pediatra del St. Michael’s Hospital of Unity Health di Toronto, Canada.

I bambini sottopeso vegetariani e non vegetariani erano simili, molto piccoli e di origine asiatica. “L’etnia potrebbe certamente aver avuto un ruolo nella determinazione del peso” ha affermato la dott.ssa Maya Adam, assistente clinica nel dipartimento di pediatria della Stanford School of Medicine. Ma al di là della dieta scelta dai genitori per i propri figli, ciò che conta è il percorso di crescita e sviluppo corretto del bambino, il più possibile pianificato e monitorato nel corso del tempo. Con l’aiuto di un nutrizionista professionista è possibile verificare lo stato di crescita dei bambini e le loro esigenze nutritive.

L’obiettivo di fondo deve essere lo stesso, sia per chi segue una dieta carnivora che vegetariana: garantire un adeguato apporto nutrizionale all’organismo del bambino, in base alle sue caratteristiche soggettive e allo stile di vita che conduce. In una dieta vegetariana per bambini non dovrebbero mai mancare uova, latticini, prodotti a base di soia, noci, semi oltre a frutta, verdura, fagioli e lenticchie, oli, cereali. Indispensabili gli alimenti ricchi di ferro e di vitamina B12, dato che le fonti vegetali di tali nutrienti sono meno biodisponibili (ovvero assorbiti meno velocemente dall’organismo) rispetto agli alimenti di origine animale.