Alcuni degli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute sono ben noti e documentati – cancro prolungato, ictus, malattie respiratorie e una lunga eccetera – ma per altri ci sono meno prove scientifiche. È il caso della salute delle ossa: ci sono solo pochi studi e i risultati non sono conclusivi. Un recente studio condotto dall’Institute for Global Health (ISGlobal) di Barcellona ha trovato un’associazione tra esposizione all’inquinamento atmosferico e cattiva salute delle ossa. Il lavoro, condotto dal Progetto CHAI, guidato da ISGlobal e pubblicato sulla rivista scientifica Jama Network Open, ha analizzato l’associazione tra inquinamento dell’aria e salute delle ossa in oltre 3.700 persone provenienti da 28 villaggi fuori dalla città di Hyberabad, nell’India meridionale.
Ebbene, i risultati hanno mostrato che l’esposizione all’inquinamento dell’aria ambiente, in particolare alle particelle fini, era associata a livelli più bassi di massa ossea. Non è stata trovata alcuna correlazione con l’uso del combustibile da biomassa per cucinare. «Questo studio – spiega Otavio T. Ranzani, ricercatore di ISGlobal e primo autore dello studio – contribuisce alla letteratura limitata e inconcludente sull’inquinamento atmosferico e sulla salute delle ossa». Per quanto riguarda i possibili meccanismi alla base di questa associazione, Ranzani ipotizza che «l’inalazione di particelle inquinanti potrebbe portare alla perdita di massa ossea attraverso lo stress ossidativo e l’infiammazione causati dall’inquinamento atmosferico».
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Il servizio informativo per i pazienti del centro “L’Incontro” a Teano (CE).
Secondo l’ultimo bollettino diramato dalla rete InfluNet dell’Istituto superiore di sanità lo scorso 27 dicembre, il numero di casi influenzali rilevati dall’inizio della sorveglianza è di circa 1.358.000. Ciò a dimostrazione che «continua ad aumentare il numero di casi di sindrome influenzale soprattutto nei bambini sotto i cinque anni di età». Un numero sempre più elevato di italiani potrebbero essere costretti a fermarsi per qualche giorno in attesa della ripresa dalla patologia che nella maggior parte dei casi può considerarsi breve e transitoria. Per migliorare lo stato di salute, si fa spesso uso di paracetamolo, appartenente alla classe dei farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans). Sebbene considerati sicuri nell’immaginario collettivo, tuttavia, è necessario prestare particolare attenzione all’utilizzo di tali farmaci, soprattutto in alcuni particolari casi.
In vista della stagione invernale, la Federazione degli ordini dei farmacisti francese (Ansm) ha ricordato ai pazienti e agli operatori sanitari di favorire il rispetto delle regole di buon uso del paracetamolo nei casi di dolore e/o febbre. Nel dettaglio, è importante «assumere la dose più bassa per il minor tempo possibile, rispettare la dose massima per ogni occasione di utilizzo, la dose massima giornaliera». In aggiunta a ciò, è fondamentale osservare correttamente «l’intervallo minimo tra le singole dosi e la durata massima raccomandata del trattamento, ovvero 3 giorni in caso di febbre, 5 giorni in caso di dolore, in assenza di prescrizione medica». Inoltre, è importante «verificare la presenza di paracetamolo in altri medicinali (usati per dolore, febbre, allergie, sintomi del raffreddore o malattie simil-influenzali)» e dunque prestare massima attenzione a coloro con peso inferiore ai 50 kg, o gli affetti da «insufficienza epatica da lieve a moderata, grave insufficienza renale, alcolismo cronico».
L’Ansm rende noto inoltre che, nel caso di utilizzo di un Fans, è necessario assumerli «alla dose minima efficace per la durata più breve», inoltre «interrompere il trattamento non appena i sintomi scompaiono», «evitare i Fans in caso di varicella, «non prolungare il trattamento oltre i 3 giorni in caso di febbre» e «non prolungare il trattamento oltre i 5 giorni in caso di dolore». Infine, «non assumere due farmaci Fans contemporaneamente» e «che tutti i Fans sono controindicati dall’inizio del sesto mese di gravidanza». Per ulteriori chiarimenti in merito alle informazioni pubblicate è possibile contattare il proprio medico curante o il farmacista di fiducia.
Un nuovo studio sulla ricerca cardiovascolare ha scoperto che l’apprendimento automatico, i modelli e le inferenze che i computer usano per imparare a svolgere compiti possono essere allo stesso modo utilizzate per prevedere il rischio a lungo termine di infarto e morte cardiaca. Secondo quanto emerso, infatti, l’apprendimento automatico sembra essere migliore nel predire gli infarti e le morti cardiache rispetto alla valutazione standard del rischio clinico utilizzata dai cardiologi. I ricercatori hanno studiato alcuni soggetti sottoposti a punteggio del calcio dell’arteria coronarica con scansioni di tac cardiache disponibili e follow-up a lungo termine. I partecipanti qui erano soggetti asintomatici di mezza età, con fattori di rischio cardiovascolare, ma nessuna malattia coronarica nota.
Lo studio finale consisteva in 1.912 soggetti, quindici anni dopo il loro primo studio. Ebbene, 76 soggetti hanno presentato un evento di infarto del miocardio e / o morte cardiaca durante questo periodo di follow-up. I punteggi previsti per l’apprendimento automatico dei soggetti si allineavano accuratamente alla distribuzione effettiva degli eventi osservati. Il punteggio del rischio di malattia cardiovascolare aterosclerotica, la valutazione standard del rischio clinico utilizzata dai cardiologi, ha sovrastimato il rischio di eventi nelle categorie a rischio più elevato. L’apprendimento automatico no. Nell’analisi non corretta, un elevato rischio di apprendimento automatico previsto era significativamente associato a un rischio più elevato di evento cardiaco.
Come è noto, tra i grandi fattori di rischio per le malattie cardiache sono annoverati la mancanza di esercizio fisico, il sovrappeso, il fumo e il diabete. Un recente studio condotto dall’Università di Leeds e pubblicato sull’European Journal of Preventive Cardiology, ha evidenziato come mantenersi attivi camminando o andando a lavoro in bici potrebbero fornire importanti benefici per la salute. Nel dettaglio, nelle aree inglesi in cui camminare o andare in bicicletta al lavoro erano più comuni, l’incidenza di attacchi di cuore è diminuita per uomini e donne nei due anni successivi. I ricercatori hanno scoperto che il pendolarismo attivo era collegato ad ulteriori benefici per la salute in alcuni casi. Per le donne che si sono recate al lavoro, l’anno successivo è stata associata una riduzione dell’1,7% degli attacchi di cuore. Per gli uomini che hanno pedalato per lavorare c’è stata anche una riduzione dell’1,7% degli attacchi di cuore l’anno successivo.
«Il nostro studio – spiega Alistair Brownlee, tra gli autori – mostra che l’esercizio fisico come mezzo per recarsi al lavoro è associato a livelli più bassi di infarto. I benefici di un regolare esercizio fisico sono numerosi e sosteniamo iniziative per aiutare tutti a diventare e rimanere attivi». «Anche se non possiamo affermare in modo definitivo che il viaggio attivo per lavorare riduce il rischio di infarto – afferma Chris Gale, autore principale -, lo studio è indicativo di tale relazione».
Erano il lontano anno 2000, i social non esistevano e per dirsi qualcosa bisognava farsi un colpo di telefono o incontrarsi di persona. Tempi che cambiano, tecnologia che innova e stravolge, ma anche conseguenze inaspettate a seguito del largo uso che si fa dei dispositivi. Esiti che spesso mettono a repentaglio il nostro stato di salute, che si tratti di quella fisica, ma soprattutto di quella mentale. E’ il caso dei risultati di uno studio pubblicato su una rivista statunitense, il Journal of Social and Clinical Psychology, che ha documentato con esattezza la correlazione tra uso smodato dei social ed impatto su solitudine e depressione.
La ricerca, condotta dall’università della Pennsylvania, ha individuato una relazione causale tra il tempo trascorso online sui social ed un calo del benessere. I ricercatori hanno messo sotto esame 143 studenti universitari, suddivisi in due gruppi, e monitorato il tempo trascorso sui social. In seguito, agli stessi partecipanti è stato presentato un questionario con domande su umore e benessere. Un primo gruppo, rispetto un secondo, doveva ridurre per tre settimane l’uso dei social a soli 10 minuti per ognuna delle tre principali piattaforme. Mentre, nel secondo gruppo, i partecipanti avrebbero potuto usare liberamente i social.
Ebbene, secondo quanto scoperto, «usare i social media meno del solito ha comportato una diminuzione significativa di depressione e solitudine. Questi effetti sono particolarmente pronunciati per le persone che erano più depresse quando sono entrate nello studio», spiega la psicologa Melissa G. Hunt, autrice della ricerca, secondo quanto riportato da Ansa. «Può sembrare strano – spiega Hunt – che usare meno i social faccia sentire meno soli, ma alcune pubblicazioni in materia evidenziano che c’è un forte confronto sociale: quando si guarda la vita delle altre persone, in particolare su Instagram, è facile concludere che la vita di tutti gli altri è più bella o migliore della propria».