Nel periodo estivo anche il farmaco, compagno per la cura di piccole e grandi patologie, ha bisogno di piccoli accorgimenti per trasporto e conservazione. Per questo motivo l’Agenzia Italiana del Farmaco ha pubblicato un opuscolo per gestire correttamente i farmaci, al fine di non ridurne efficacia qualità e sicurezza.
La prima regola da seguire è di conservare i farmaci in luoghi asciutti e freschi. Bisogna poi verificare sempre la giusta temperatura di conservazione sul foglietto illustrativo.
L’applicazione di alcuni farmaci possono indurre reazione con l’esposizione al sole, è bene quindi verificare con il proprio farmacista o con il medico se i farmaci somministrati rientrano tra questi.
Usare i farmaci nelle loro formulazioni “solide”, fa sì che si mantengano meglio quando fa caldo. Portare i farmaci con se sempre nelle loro confezioni originali.
Non esporre mai i farmaci al sole e al calore ed in caso di viaggio usare contenitori termici, soprattutto per i farmaci che vanno conservati in frigorifero.
Per chi viaggia, ed ha bisogno di farmaci salvavita, è necessario che li porti con se nel bagaglio a mano, nella confezione originale e con la prescrizione del medico.
Tenere sempre sotto controllo la pressione, in caso di ipertensione. Il caldo infatti può portare a delle variazioni di pressione che potrebbero provocarne l’abbassamento eccessivo.
Per dare uno sguardo nel dettaglio ai consigli, è possibile scaricare l’opuscolo a questo link http://www.aifa.gov.it/sites/default/files/Farmaci&Estate_web.pdf .
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Il servizio informativo per i pazienti del centro “L’Incontro” a Teano (CE).
I cicli coinvolti nel metabolismo dello zinco e del rame sono sregolati nel disturbo dello spettro autistico, e la loro analisi potrà essere utilizzata per individuare chi successivamente svilupperà la malattia. L’importante scoperta è dei ricercatori dell’Institute for Exposomic Research alla Icahn School of Medicine del Mount Sinai Hospital di New York, che hanno analizzato i denti da latte di bambini sani e autistici per ricostruire le esposizioni prenatali e di prima infanzia a elementi nutritivi e tossici. I risultati dello studio sono stati pubblicati online su Science Advances, la rivista dell’American Association for the Advancement of Science.
Si tratta del primo studio al mondo ad aver generato un biomarcatore fetale e infantile dell’autismo, accurato al 90%, utilizzando un’analisi longitudinale di distinte vie metaboliche e replicandolo in quattro popolazioni di studio indipendenti. I risultati di questa ricerca potrebbero produrre un nuovo approccio diagnostico per l’autismo nelle prime fasi della vita, ovvero prima che compaia il disturbo, e potrebbero originare nuovi trattamenti e strategie di prevenzione.
Per determinare gli effetti della disfunzione del metabolismo dello zinco e del rame sullo sviluppo dell’autismo, i ricercatori del Mount Sinai hanno utilizzato il biomarker nei denti da latte di gemelli che vivono in Svezia e hanno poi replicato la procedura in altre tre popolazioni: un gruppo di fratelli non gemelli a New York, e due popolazioni di partecipanti non imparentati del Texas e del Regno Unito. L’autismo è stato identificato in circa 1 bambino su 68, secondo il Centro americano per il controllo e la prevenzione delle malattie.
Durante lo sviluppo fetale e infantile, ogni giorno si forma un nuovo strato di denti, e man mano che ciascuna di questi ‘anelli di crescita’ si forma, un’impronta delle diverse sostanze chimiche che circolano nell’organismo viene catturata in ogni strato, fornendo una registrazione cronologica dell’esposizione a tali sostanze. Il team di ricerca ha utilizzato i laser per campionare questi strati e ricostruire le esposizioni passate lungo marcature incrementali, con un metodo simile a quello che utilizza gli anelli di crescita di un albero per determinare la storia del suo sviluppo. Questa tecnica, scoperta dal dottor Manish Arora, chirurgo dentale e dottore ricercatore al Mount Sinai, ha fatto fare un enorme passo avanti alla ricerca nel campo dell’Esposomica, la disciplina che studia gli effetti della totalità delle esposizioni ambientali nel corso della vita. Essa infatti ha fornito un cruciale pezzo mancante alla maggior parte delle analisi sulle esposizioni ambientali, il tempo, consentendo così di ricostruire le esposizioni passate, comprese quelle vissute prima della nascita.
‹‹Abbiamo riscontrato significative divergenze tra i bambini affetti da autismo e i loro fratelli sani, e abbiamo usato questi biomarcatori per predire l’insorgere della malattia – ha spiegato uno dei principali autori dello studio, Paul Curtin, dottore ricercatore e Professore associato presso il Dipartimento di Medicina Ambientale e Sanità Pubblica della Icahn School – Questi risultati suggeriscono che il metabolismo ciclico di nutrienti e sostanze tossiche è fondamentale per il sano sviluppo neurologico e l’emergere dell’autismo››.
‹‹I risultati di questo studio sono importanti perché identificano percorsi specifici correlati alla patologia dell’autismo e potrebbero portare alla creazione di un sistema di diagnosi precoce per l’autismo e altri disordini dello sviluppo neurologico. Se l’autismo viene diagnosticato in giovane età, i genitori possono trarre vantaggio dall’introduzione precoce delle terapie›› ha commentato infine il dottor Arora.
L’Institute for Exposomic Research della Icahn School of Medicine del Mount Sinai è il primo istituto di ricerca al mondo dedicato allo studio intensivo dell’esposizione e alla totalità delle influenze ambientali sulla salute umana. La missione dell’Istituto è capire come il complesso mix di ambienti nutrizionali, chimici e sociali influenzi la salute, le malattie e lo sviluppo nella vita adulta, per tradurre tali risultati in nuove strategie di prevenzione e trattamento.
Metodi come l’analisi dei denti hanno fornito all’Istituto di ricerca esposomica del Mount Sinai un approccio ad ampio raggio per osservare più esposizioni e modelli allo stesso tempo. Negli studi futuri, il team di ricerca prevede di utilizzare i denti da latte per studiare l’associazione dei cicli metabolici del metallo con il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.
Negli ultimi dieci anni, l’’incidenza di insufficienza cardiaca è diminuita complessivamente in entrambi i sessi e rimane più alta negli uomini, eppure le donne hanno maggiori probabilità di morire a causa di questa patologia, è quanto emerge da uno studio pubblicato sul Canadian Medical Association Journal, che ha analizzato 90.707 nuove diagnosi di insufficienza cardiaca, riscontrate tra i residenti dell’Ontario dal 2009 al 2014. Quasi il 17% delle donne muore entro un anno di follow-up, rispetto a poco meno del 15% degli uomini, mentre le percentuali di ospedalizzazione sono diminuite durante il periodo di studio negli uomini e aumentate nelle donne. Parte della spiegazione potrebbe essere che gli uomini hanno maggiori probabilità di avere una forma di insufficienza cardiaca che può essere spesso trattata senza necessità di ricovero ospedaliero, mentre le donne più spesso soffrono di un tipo diverso di insufficienza, che poche terapie efficaci disponibili. Inoltre, le donne tendono a presentare sintomi diversi da quelli maschili e non sempre facilmente identificabili come insufficienza cardiaca.
Le donne nello studio erano il 47% del campione, spesso più anziane e fragili, e presentavano altre malattie insieme allo scompenso cardiaco, ma anche dopo aver controllato questi e molti altri fattori, il tasso di mortalità restava ancora più alto nelle donne. “La consapevolezza pubblica è importante, e invece per qualche motivo l’insufficienza cardiaca non riceve molta attenzione. Parte dell’obiettivo di questa ricerca è quello di accrescere tale consapevolezza tra medici, pazienti e ricercatori”, ha dichiarato la dott.ssa Louise Y. Sun, autrice principale dello studio e professore associato di anestesiologia presso l’Università di Ottawa Heart Istituite.
Il professor Agostino Di Ciaula, presidente del Comitato Scientifico Isde Italia, l’Associazione italiana Medici per l’Ambiente, ha rilanciato la richiesta di una moratoria per l’avvio in Italia delle sperimentazioni 5G, ritenendo il loro impatto sociale ancora troppo violento per la salute del nostro Paese. 5G significa “quinta generazione di connessione mobile”, che è ormai a portata di mano in tutto il mondo e darà il via ad una delle rivoluzioni tecnologiche più grandi fin qui registrate. Nell’appello dell’Isde si legge: “Lo scorso 5 maggio l’AGCOM ha approvato la delibera che regola le procedure per l’assegnazione e le regole di utilizzo delle frequenze per il 5G, aprendo di fatto la strada della sperimentazione. Sono rimasti inascoltati sia il documento con il quale circa 180 scienziati e medici di 35 Paesi hanno voluto sottolineare i rischi del 5G, sia la richiesta di moratoria avanzata da ISDE a livello nazionale e internazionale. Nelle audizioni precedenti la stesura della delibera si legge addirittura che è stata da alcuni operatori “richiamata l’attenzione del regolatore sugli stringenti limiti alle emissioni elettromagnetiche presenti in Italia, che potrebbero porre un freno allo sviluppo degli impianti radio”, richiedendo “una revisione dell’attuale normativa” nonostante questa, sulla base di numerosissime e autorevoli evidenze scientifiche, non sia già ora assolutamente in grado di tutelare la salute umana e sia da rivedere, al contrario, in senso enormemente più restrittivo.Con l’avvio delle “sperimentazioni”, circa 4 milioni di italiani saranno esposti a campi elettromagnetici ad alta frequenza con densità espositive e frequenze sino ad ora inesplorate su così ampia scala e sottovalutare o ignorare il valore delle evidenze scientifiche disponibili non appare eticamente accettabile. Come osservato da Lorenzo Tomatis, questo “equivale ad accettare che un effetto potenzialmente dannoso di un agente ambientale può essere determinato solo a posteriori, dopo che quell’agente ha avuto tempo per causare i suoi effetti deleteri”. Per queste ragioni ISDE intende rinnovare la richiesta di una moratoria per l’utilizzo del 5G su tutto il territorio nazionale sino a quando non sia adeguatamente pianificato un coinvolgimento attivo degli enti pubblici deputati al controllo ambientale e sanitario (Ministero Ambiente, Ministero Salute, ISPRA, ARPA, dipartimenti di prevenzione), non siano messe in atto valutazioni preliminari di rischio secondo metodologie codificate e un piano di monitoraggio dei possibili effetti sanitari sugli esposti, che dovrebbero in ogni caso essere opportunamente informati dei potenziali rischi.
E’ ampiamente noto che lo stress causa cambiamenti fisiologici, compresi i cambiamenti nella funzione immunitaria, tuttavia le evidenze scientifiche che lo collegano a specifiche malattie sono limitate. Oggi uno studio retrospettivo svedese, pubblicato sul prestigioso Journal of the American Medical Association (JAMA), dimostra che una condizione psichiatrica legata allo stress può aumentare il rischio di malattie autoimmuni.
Per l’analisi i ricercatori hanno utilizzato un database svedese di 106.464 pazienti che presentavano una grave condizione di stress come disturbo da stress post-traumatico, reazione acuta allo stress o disturbi dell’adattamento, li hanno confrontati con 1.064.640 individui non indentificati e con 126.652 dei loro fratelli, tutti privi di tali disturbi.
Durante una media di 10 anni di follow-up, ci sono stati 8.284 casi di malattia autoimmune nel gruppo di pazienti con diagnosi di disturbi da stress, 57.711 casi nel gruppo di sconosciuti e 8.151 casi tra i fratelli privi di disturbi. Dopo aver controllato ed escluso altri fattori di rischio, gli studiosi hanno scoperto che rispetto a quelli che non avevano avuto uno stress grave, quelli con qualsiasi disturbo correlato allo stress avevano il 36% in più di probabilità di sviluppare una malattia autoimmune e il 29% in più rispetto ai loro fratelli senza disturbi da stress. Le persone con diagnosi di disturbo da stress post traumatico erano particolarmente ad alto rischio, con una probabilità del 46% in più di sviluppare una malattia autoimmune.
L’età media alla diagnosi dei disturbi legati allo stress era di 41 anni e l’aumento del rischio relativo era più pronunciato tra i pazienti più giovani, tuttavia l’uso persistente di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, durante il primo anno di diagnosi del disturbo da stress post-traumatico, è stato associato ad un rischio relativo attenuato di malattia autoimmune. ‹‹Lo stress influisce davvero sulla salute a lungo termine – ha spiegato il dottor Huan Song, autore principale dello studio e ricercatore all’Università dell’Islanda – esso non colpisce solo la salute psichica, bensì rende le persone vulnerabili ad altre malattie fisiche. Ci sono molti trattamenti disponibili per i disturbi legati allo stress ed è importante che le persone siano trattate in tempo con le adeguate terapie››.