Come è noto, con decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze sono stati inclusi circa venti professionisti sanitari tra coloro che dovranno comunicare i dati relativi alle spese sanitarie sostenute dai pazienti. Grazie a tale obbligo, i dati relativi alle prestazioni erogate potranno essere incluse in automatico nella dichiarazione dei redditi precompilata. Dopo l’erogazione della prestazione, il professionista sanitario sarà tenuto all’invio dei dati al sistema predisposto dal ministero. Le informazioni verranno poi raccolte ed aggregate nell’apposita piattaforma presente sul portale dell’Agenzia delle entrate, ove il contribuente potrà, solo o mediante delega, verificare i dati inseriti, al fine di confermarli in via definitiva.
Cosa accade però se per motivi di svariata natura il contribuente vuole manifestare il diniego al trattamento dei dati personali e dunque “nascondere” determinate spese sanitarie dalla dichiarazione precompilata? A rispondere a tale quesito è l’Agenzia delle entrate, la quale ribadisce in una nota che «come per le altre spese sanitarie, l’opposizione dell’assistito a rendere disponibili all’Agenzia i dati relativi alle spese sanitarie può essere manifestata negli altri casi chiedendo verbalmente al medico o alla struttura sanitaria l’annotazione dell’opposizione sul documento fiscale. L’informazione di tale opposizione deve essere conservata anche dal medico/struttura sanitaria». L’Agenzia evidenzia inoltre che «tale disposizione si applica con riferimento alle spese sanitarie, relative alle prestazioni erogate dai soggetti neo-individuati, sostenute a partire dal sessantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione del provvedimento di oggi».
In aggiunta alla prima modalità, l’Agenzia delle entrate puntualizza che «restano immutate le regole per opporsi all’utilizzo dei dati in dichiarazione precompilata da parte del contribuente», ovvero «dal 9 febbraio all’8 marzo 2020, accedendo all’area autenticata del sito web Sts, tramite tessera sanitaria Ts-Cns oppure utilizzando le credenziali Fisconline rilasciate dall’Agenzia (in questo modo, è possibile consultare l’elenco delle spese sanitarie e selezionare le singole voci per le quali esprimere la propria opposizione all’invio dei relativi dati all’Agenzia per l’elaborazione della precompilata)». Oppure, «dal 1° ottobre 2019 al 31 gennaio 2020, comunicando direttamente all’Agenzia delle entrate tipologia (o tipologie) di spesa da escludere, dati anagrafici (nome e cognome, luogo e data di nascita), codice fiscale, numero della tessera sanitaria e relativa data di scadenza, il tutto utilizzando l’apposito modello, disponibile sul sito Internet dell’Agenzia».
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
Una nuova recensione di esperti conferma che la dieta influenza in modo significativo la salute e il benessere mentale, ma avverte che l’evidenza di molte diete è relativamente debole. Questa, la panoramica più aggiornata del nuovo campo della psichiatria nutrizionale, è prodotta dalla rete di nutrizione dell’ECNP ed è pubblicata sulla rivista Neuropsychopharmacology. I ricercatori hanno scoperto che ci sono alcune aree in cui questo legame tra dieta e salute mentale è saldamente stabilito, come la capacità di una dieta ricca di grassi e carboidrati (una dieta chetogenica) di aiutare i bambini con epilessia e l’effetto della carenza di vitamina B12 su stanchezza, scarsa memoria e depressione.
Inoltre, hanno anche scoperto che ci sono buone prove che una dieta mediterranea, ricca di verdure e olio d’oliva, mostra benefici per la salute mentale, come dare una certa protezione contro la depressione e l’ansia. Tuttavia, per molti alimenti o integratori, l’evidenza è inconcludente, come ad esempio con l’uso di integratori di vitamina D o con alimenti che si ritiene siano associati all’ADHD o all’autismo. «Abbiamo scoperto – evidenzia Suzanne Dickson dell’Università di Göteborg in Svezia – che vi sono prove crescenti di un legame tra una cattiva alimentazione e il peggioramento dei disturbi dell’umore, compresi ansia e depressione. Tuttavia, molte credenze comuni sugli effetti sulla salute di determinati alimenti non sono supportate da prove concrete».
Alcuni degli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute sono ben noti e documentati – cancro prolungato, ictus, malattie respiratorie e una lunga eccetera – ma per altri ci sono meno prove scientifiche. È il caso della salute delle ossa: ci sono solo pochi studi e i risultati non sono conclusivi. Un recente studio condotto dall’Institute for Global Health (ISGlobal) di Barcellona ha trovato un’associazione tra esposizione all’inquinamento atmosferico e cattiva salute delle ossa. Il lavoro, condotto dal Progetto CHAI, guidato da ISGlobal e pubblicato sulla rivista scientifica Jama Network Open, ha analizzato l’associazione tra inquinamento dell’aria e salute delle ossa in oltre 3.700 persone provenienti da 28 villaggi fuori dalla città di Hyberabad, nell’India meridionale.
Ebbene, i risultati hanno mostrato che l’esposizione all’inquinamento dell’aria ambiente, in particolare alle particelle fini, era associata a livelli più bassi di massa ossea. Non è stata trovata alcuna correlazione con l’uso del combustibile da biomassa per cucinare. «Questo studio – spiega Otavio T. Ranzani, ricercatore di ISGlobal e primo autore dello studio – contribuisce alla letteratura limitata e inconcludente sull’inquinamento atmosferico e sulla salute delle ossa». Per quanto riguarda i possibili meccanismi alla base di questa associazione, Ranzani ipotizza che «l’inalazione di particelle inquinanti potrebbe portare alla perdita di massa ossea attraverso lo stress ossidativo e l’infiammazione causati dall’inquinamento atmosferico».
Secondo l’ultimo bollettino diramato dalla rete InfluNet dell’Istituto superiore di sanità lo scorso 27 dicembre, il numero di casi influenzali rilevati dall’inizio della sorveglianza è di circa 1.358.000. Ciò a dimostrazione che «continua ad aumentare il numero di casi di sindrome influenzale soprattutto nei bambini sotto i cinque anni di età». Un numero sempre più elevato di italiani potrebbero essere costretti a fermarsi per qualche giorno in attesa della ripresa dalla patologia che nella maggior parte dei casi può considerarsi breve e transitoria. Per migliorare lo stato di salute, si fa spesso uso di paracetamolo, appartenente alla classe dei farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans). Sebbene considerati sicuri nell’immaginario collettivo, tuttavia, è necessario prestare particolare attenzione all’utilizzo di tali farmaci, soprattutto in alcuni particolari casi.
In vista della stagione invernale, la Federazione degli ordini dei farmacisti francese (Ansm) ha ricordato ai pazienti e agli operatori sanitari di favorire il rispetto delle regole di buon uso del paracetamolo nei casi di dolore e/o febbre. Nel dettaglio, è importante «assumere la dose più bassa per il minor tempo possibile, rispettare la dose massima per ogni occasione di utilizzo, la dose massima giornaliera». In aggiunta a ciò, è fondamentale osservare correttamente «l’intervallo minimo tra le singole dosi e la durata massima raccomandata del trattamento, ovvero 3 giorni in caso di febbre, 5 giorni in caso di dolore, in assenza di prescrizione medica». Inoltre, è importante «verificare la presenza di paracetamolo in altri medicinali (usati per dolore, febbre, allergie, sintomi del raffreddore o malattie simil-influenzali)» e dunque prestare massima attenzione a coloro con peso inferiore ai 50 kg, o gli affetti da «insufficienza epatica da lieve a moderata, grave insufficienza renale, alcolismo cronico».
L’Ansm rende noto inoltre che, nel caso di utilizzo di un Fans, è necessario assumerli «alla dose minima efficace per la durata più breve», inoltre «interrompere il trattamento non appena i sintomi scompaiono», «evitare i Fans in caso di varicella, «non prolungare il trattamento oltre i 3 giorni in caso di febbre» e «non prolungare il trattamento oltre i 5 giorni in caso di dolore». Infine, «non assumere due farmaci Fans contemporaneamente» e «che tutti i Fans sono controindicati dall’inizio del sesto mese di gravidanza». Per ulteriori chiarimenti in merito alle informazioni pubblicate è possibile contattare il proprio medico curante o il farmacista di fiducia.
Un nuovo studio sulla ricerca cardiovascolare ha scoperto che l’apprendimento automatico, i modelli e le inferenze che i computer usano per imparare a svolgere compiti possono essere allo stesso modo utilizzate per prevedere il rischio a lungo termine di infarto e morte cardiaca. Secondo quanto emerso, infatti, l’apprendimento automatico sembra essere migliore nel predire gli infarti e le morti cardiache rispetto alla valutazione standard del rischio clinico utilizzata dai cardiologi. I ricercatori hanno studiato alcuni soggetti sottoposti a punteggio del calcio dell’arteria coronarica con scansioni di tac cardiache disponibili e follow-up a lungo termine. I partecipanti qui erano soggetti asintomatici di mezza età, con fattori di rischio cardiovascolare, ma nessuna malattia coronarica nota.
Lo studio finale consisteva in 1.912 soggetti, quindici anni dopo il loro primo studio. Ebbene, 76 soggetti hanno presentato un evento di infarto del miocardio e / o morte cardiaca durante questo periodo di follow-up. I punteggi previsti per l’apprendimento automatico dei soggetti si allineavano accuratamente alla distribuzione effettiva degli eventi osservati. Il punteggio del rischio di malattia cardiovascolare aterosclerotica, la valutazione standard del rischio clinico utilizzata dai cardiologi, ha sovrastimato il rischio di eventi nelle categorie a rischio più elevato. L’apprendimento automatico no. Nell’analisi non corretta, un elevato rischio di apprendimento automatico previsto era significativamente associato a un rischio più elevato di evento cardiaco.