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Sigarette elettroniche, studio: «Danneggiano le cellule staminali del cervello»

Negli ultimi anni la rapida diffusione delle sigarette elettroniche ha reso possibile una via alternativa al fumo di tabacco per coloro intenzionati a ridurre o eliminare il problema del tabagismo. Tuttavia, sebbene sia ancora controverso l’effettivo beneficio di tali dispositivi nella disassuefazione dal fumo, un recente studio portato a termine da un gruppo di ricerca dell’Università della California, Riverside, ha scoperto che le sigarette elettroniche, spesso mirate ai giovani e alle donne in gravidanza, producono una risposta allo stress nelle cellule staminali neurali, che sono cellule critiche nel cervello.
Come è noto, le cellule staminali diventano cellule specializzate con funzioni più specifiche, come cellule cerebrali, cellule del sangue o ossa. Esse sono molto più sensibili allo stress rispetto alle cellule specializzate e forniscono un modello per studiare l’esposizione a sostanze tossiche, come il fumo di sigaretta. Ebbene, proprio in merito alle sigarette elettroniche, utilizzando cellule staminali neurali del topo coltivate, i ricercatori dell’UC Riverside hanno identificato il meccanismo alla base della tossicità delle cellule staminali indotta da EC come “iperfusione mitocondriale indotta dallo stress” o SIMH. «Gli alti livelli di nicotina nelle EC  – evidenziano – portano ad un’inondazione di nicotina di speciali recettori nella membrana delle cellule staminali neurali”, ha detto Zahedi. «La nicotina si lega a questi recettori, causandone l’apertura, mentre il calcio e gli altri ioni iniziano a entrare nella cellula e alla fine si verifica un sovraccarico di calcio».

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Inibitori di pompa, l’Fda ricorda il possibile rischio di fratture

Gli inibitori di pompa sono dei farmaci che, grazie alla loro azione, riducono il Ph acido dello stomaco proteggendolo dal rischo di lesioni. Questi farmaci vengono usati soli o in associazione nel caso di uso prolungato di antinfiammatori noti per l’azione di lesività delle pareti dello stomaco. Inoltre, tali medicinali sono usati per altre condizioni quali dispepsia, ulcera gastro-duodenale, oppure associati con altri antibiotici per curare la gastrite da Helicobacter pylori, sindrome di Zollinger-Ellison ed infine reflusso gastro-esofageo. In Italia, per poter acquistare gli inibitori di pompa è necessaria la ricetta del medico, mentre negli Stati Uniti vengono commercializzati come Otc, vale a dire liberamente acquistabili dal paziente senza alcun tipo di ricetta.
La Food & Drug Administration (Fda), ente governativo statunitense  che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha richiamato l’attenzione su un utilizzo intensivo e non controllato di tali medicinali. Ciò attraverso un avviso di osteoporosi e di frattura sull’etichetta “Fatti del farmaco” del farmaco per inibitori della pompa protonica, in seguito ad un’accurata revisione dei dati di sicurezza disponibili, la Fda ha concluso che il rischio di fratture con l’uso di Ppi a breve termine e basse dosi è improbabile. Sebbene questa notizia risalga al lontano marzo del 2011, si ritiene dunque utile ricordare la pericolosità di un uso non controllato di tali medicinali.
A tal proposito, l’Fda ha ricordato che gli utilizzatori di tali famaci devono «essere consapevoli – si legge in una nota dell’ente – del fatto che in alcuni studi su pazienti che usano inibitori della pompa protonica è stato segnalato un aumentato rischio di fratture dell’anca, del polso e della colonna vertebrale». Tale maggior rischio, spiega l’Fda, «è stato osservato nei pazienti che ricevono alte dosi di questi farmaci o li usano più a lungo (un anno o più)». In aggiunta a ciò, «se il tuo bruciore di stomaco continua, parla con il tuo medico. Non più di tre corsi di trattamento di 14 giorni dovrebbero essere utilizzati in un anno» e dunque parlare col medico o col farmacista di fiducia «per eventuali dubbi sull’utilizzo degli inibitori della pompa protonica».

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Ictus, studio: «Può essere innescato da infezioni del tratto urinario»

Come è noto, l’ictus è una condizione patologica dovuta ad una perdita della funzionalità del cervello causata da un ridotto o insufficiente apporto di sangue in un’area più o meno estesa dell’organo. Diversi fattori di rischio possono contribuire all’insorgenza di tale condizione, tra cui ipertensione, aterosclerosi, ma anche fumo di sigaretta e consumo di alcool. Tuttavia, un recente studio pubblicato nel giornale Stroke della American Heart Association, ha evidenziato che «diverse infezioni sono state identificate come possibili cause di ictus, tra cui infezioni del tratto urinario che mostrano il legame più forte con l’ictus ischemico».
Per l’ictus ischemico, i ricercatori hanno scoperto che ogni tipo di infezione era associato a una maggiore probabilità di questo tipo di ictus. Il legame più forte è stato osservato con l’infezione del tratto urinario, che ha mostrato più di tre volte l’aumento del rischio di ictus ischemico entro 30 giorni dall’infezione. Per tutti i tipi di infezione, l’entità del rischio di ictus diminuiva con il crescere del periodo di tempo prima dell’ictus ischemico. Tuttavia, a fronte delle evidenze, non è ancora stato chiarito il perché di quanto osservato.
«Il nostro studio – spiegano i ricercatori – dimostra che dobbiamo fare di più per capire perché e come le infezioni sono associate al verificarsi di diversi tipi di ictus, e questo ci aiuterà a determinare cosa possiamo fare per prevenire questi tipi di ictus. Questi risultati suggeriscono che ci potrebbero essere implicazioni per vaccinazione, regimi antibiotici o trattamenti antitrombotici intensivi non solo per prevenire le infezioni ma per prevenire l’ictus in coloro che sono considerati ad alto rischio».

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Smartphone e salute, i pediatri: «Rischio per gli adolescenti»

Si chiamano “nativi digitali”, usano gli smartphone quotidianamente e navigano su Internet almeno una volta al giorno. Sono l’86% degli adolescenti italiani, di età compresa tra gli 11 e i 17 anni. Una relazione molto stretta con le nuove tecnologie, che però non è senza conseguenze. All’aumentare dell’uso degli strumenti digitali, sembra infatti crescere anche il numero di disturbi psicofisici ad essi correlati. L’allarme lanciato dalla Società italiana di pediatria (Sip) è volto a mettere in guardia genitori e pediatri su quello che sta gradualmente diventando un problema sempre più diffuso. «La dipendenza da smartphone è la malattia del nostro secolo», spiega Elena Bozzola, consigliere Sip, intervistata durante il 75emo Congresso dell’omonima società. Per molti giovani le nuove tecnologie finiscono dunque per rappresentare un rifugio confortevole dal quale diventa progressivamente più difficile uscire, e questo a scapito della salute.
Le ore passate chini sullo schermo fanno aumentare i problemi legati alla carenza di sonno così come quelli oculari o della postura. Tuttavia, i disturbi non sono esclusivamente di natura fisica: l’uso smodato degli smartphone è strettamente correlato a problemi psichici. Tra questi, la diminuzione della soglia dell’attenzione.
È in questo quadro clinico che entra in gioco la nuova posizione della Società italiana di pediatria. Nello specifico, vengono definite le soglie di pericolo ed i campanelli d’allarme ai quali prestare attenzione per cogliere in tempo i segnali dell’insorgenza di comportamenti patologici. «Il documento, afferma Nicola Zamperini, giornalista esperto in comunicazione digitale, chiama alla responsabilità due categorie di persone direttamente coinvolte sul tema: i genitori e i pediatri». A questi ultimi viene chiesto di prestare particolare attenzione al fenomeno, inserendo all’interno della visita domande che facciano emergere il rapporto dei pazienti con il mondo digitale al fine di individuare in tempo casi di dipendenza.
Oltre 120mila sono in Italia i giovani che vivono in una sorta di ritiro sociale filtrando la realtà attraverso uno schermo. È quella che viene chiamata la sindrome di Hikikomori, vera e propria malattia che si traduce nell’incapacità di uscire da casa e nell’utilizzo di Internet come unica finestra sul mondo.

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Estate: bene il sole, ma attenzione ad esporsi alle radiazioni

Il 21 giugno è il solstizio d’estate, vale a dire il giorno più lungo dell’anno, nonché l’inizio dell’estate. A parte le calde giornate e le piacevoli e fresche serate, con l’avvio della stagione estiva sono diverse le problematiche a cui l’organismo va incontro. In primis, il fenomeno della disidratazione, da affrontare con una corretta idratazione, una buona varietà di frutta e verdura, e, solo se necessario, il reintegro con soluzioni saline. Un altro aspetto da considerare è l’esposizione al sole. A far riflettere sulla pericolosità dei raggi solari, ma anche sui possibili rimedi, è la Società italiana di tossicologia (Sitox), associazione scientifica dedicata alla tossicologia e promuove iniziative in campo formativo, ricerca e applicazione in campo clinico e regolatorio. Secondo quanto spiega la Sitox, infatti, «esporsi ai raggi solari fa bene all’umore ed è indispensabile alla vita e al corretto metabolismo dell’organismo di bambini e adulti».
«Attenzione però – evidenzia l’associazione – alla quantità e al tempo. Il sole “preso” male non solo scatena i radicali liberi e invecchia la pelle, ma ci espone a malattie molto gravi. Cautela se assumete farmaci: possono interagire con il sole e dare reazioni. E ancora: quale filtro devo usare, a seconda della pelle che ho?». Sono domande a cui la Sitox ha certato di rispondere. In proposito, Sitox evidenzia che i raggi «UV-A sono implicati non solo nei processi di fotoinvecchiamento e fotodermatosi ma anche di fotosensibilizzazione (fotoallergia) nei confronti di alcuni farmaci e di fototossicità». Quanto a quest’ultima, esse «comprende tre diversi eventi fotochimici: fotochemiotossicità (una risposta cellulare abnorme alle radiazioni nello spettro del visibile o UV in presenza o in assenza di una sostanza chimica), fotoallergia (reazione di fotosensibilizzazione con coinvolgimento del sistema immunitario) e fotocancerogenesi (reazione cutanea caratterizzata dall’invecchiamento cutaneo e possibili lesioni pre-maligne e maligne)».
«Le radiazioni UV – spiega Sitox -, specialmente le UV-B sono potenzialmente tossiche per i tessuti, particolarmente per la cute e gli occhi. Ma solo potenzialmente, in quanto con un’esposizione (dose) equilibrata al sole e con le protezioni solari adeguate si possono evitare le modificazioni degenerative responsabili degli effetti sopraccitati». Ne consegue che, alla luce di quanto evidenziato, «l’utilizzo dei prodotti per la protezione solare è estremamente utile in quanto protegge la pelle dai raggi UV assorbendoli, disperdendoli oppure riflettendoli in base ai filtri solari che contengono. I filtri fisici (ZnO, TiO2) riflettono le radiazioni, mentre invece i filtri chimici li assorbono, spegnendo, in modo selettivo, le radiazioni UV-A e UV-B». Il proprio farmacista di fiducia è sempre disponibile ad affrontare queste – ed altre – tematiche in merito alle interazioni tra farmaci e sole.