Con riferimento alla dichiarazione dei redditi precompilata, l’Agenzia delle Entrate preleva parte dei dati relativi alle spese sanitarie direttamente dal portale Sistema tessera sanitaria, nel quale sono contenute le spese sanitarie e veterinarie effettuate dall’assistito per le quali l’assistito non ha esercitato l’opposizione al trattamento dei dati personali. In sostanza, l’Agenzia rende disponibile al contribuente il totale complessivo delle spese agevolabili, comprese quelle sostenute dai familiari a carico, al netto dei rimborsi, comprese le spese per i prodotti effettuate in farmacia.
I dati forniti dal sistema infatti sono quelli relativi alle ricevute di pagamento, alle fatture ed agli scontrini, che in farmacia vengono propriamente detti “Scontrini Parlanti”, che riportano i dati fiscali del paziente e sulla base dei quali le farmacie inviano per via telematica le spese di riferimento al Sistema tessera sanitaria.
La novità del 2018, sul periodo d’imposta precedente, è proprio quella relativa alla rettifica dei dati, ovvero la funzionalità che consente al contribuente di effettuare la modifica dei dati delle spese sanitarie e veterinarie direttamente sull’apposita piattaforma.
Il contribuente può entrare nella propria area di riferimento e accettare, modificare o integrare direttamente la dichiarazione. Nell’area autenticata può integrare le informazioni relative alle singole spese ed ai rimborsi, le informazioni di dettaglio relative alle singole spese.
Per tutti i dettagli del caso è opportuno far riferimento direttamente alla circolare dell’Agenzia delle Entrate pubblicata il 9 aprile 2018 al link seguente (clicca per aprire la pagina), o al proprio fiscalista di fiducia.
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
Alcuni scienziati statunitensi in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Diabetes”, edita dall’American Diabetes Association, hanno dimostrato che il solo esercizio fisico potrebbe non essere sufficiente a generare una discreta riduzione di peso. Le evidenze emerse nello studio che ha riguardato principalmente animali, potrebbe avere implicazioni anche sulle persone che praticano esercizio fisico con la speranza di una perdita di peso.
Negli anni recenti molti studi avevano già esaminato la correlazione tra esercizio fisico e perdita di peso e, gran parte di essi, avevano dimostrato che l’esercizio fisico, nella singolarità, non è un mezzo efficace per perdere peso. In gran parte di questi esperimenti i partecipanti perdevano meno peso di quanto invece si sarebbero aspettati, in proporzione all’effettivo dispendio di calorie durante le sessioni di allenamento.
Ebbene, nel recente studio pubblicato, gli scienziati hanno evidenziato che le persone che praticavano esercizio fisico, qualunque essa fosse la tipologia, tendevano ad essere più affamati e a consumare più calorie dopo l’attività fisica. Inoltre, hanno visto che coloro che effettuavano sessioni di allenamento, diventavano più sedentari fuori dalle sessioni di esercizio, nella vita di tutti i giorni. In pratica, questi ultimi atteggiamenti (sedentarietà e maggiore appetito) compensavano il dispendio extra di energie utilizzato durante gli allenamenti, andando a bilanciare il carico di calorie tra quelle dissipate e accumulate.
Da ciò ne consegue che non ha senso fare attività fisica e poi praticare una vita sedentaria e concedersi eccessi calorici, con la speranza poi di smaltirli durante le sessioni di allenamento.
E’ stato pubblicato il rapporto stagionale relativo all’andamento dei casi influenzali della stagione invernale 2017/2018.
Ebbene, nella stagione scorsa ad oggi sono stati segnalati 744 casi gravi di influenza, confermata in soggetti ricoverati in terapia intensiva, 160 dei quali sono deceduti.
Il 90% dei decessi si è verificato in età superiore ai 25 anni, nel 58% dei casi di sesso maschile, con età media di 60 anni. L’84% dei casi gravi segnalati presentava almeno una condizione di rischio per la predisposizione a complicarsi delle condizioni cliniche, tra cui diabete, tumori, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche, ed altre malattie.
Proprio a settembre 2017 Assosalute aveva pubblicato un vademecum con consigli utili ad affrontare i malanni di stagione, in particolare quelli causati da virus influenzali e parainfluenzali.
Nella maggior parte dei casi i consigli riguardavano l’accurata igiene delle mani, il coprirsi correttamente ed evitare, quanto più possibile, sbalzi di temperatura. Sempre validi, nello stesso tempo, i cosiddetti rimedi della nonna tra cui spremute, al latte col miele, passando per il brodo caldo. In tutti i casi è sconsigliato cominciare ad assumere farmaci sintomatici senza la diagnosi del medico curante: spesso infatti molti virus e batteri confondono i loro sintomi pertanto è necessario intervenire solo quando la sintomatologia è ben manifesta. Assumere dei farmaci immediatamente significherebbe inoltre non dare la possibilità all’organismo di manifestare il proprio sintomo correttamente, impedendo al medico di poter individuare la causa e quindi il rimedio necessario per la completa guarigione.
Lo sviluppo e l’impiego degli antibiotici ha fatto in modo da poter rivoluzionare il trattamento e la prevenzione di molte malattie infettive, sin dalla seconda metà del XX secolo, tuttavia, la comparsa di resistenze agli antibiotici è un problema che mette in guardia i pazienti dalla permanenza di patologie infettive che non rispondono ai trattamenti.
Il meccanismo della resistenza ad un antibiotico è la capacità insita del microrganismo di sviluppare una forma di difesa tale da rendere inefficiente ed inefficace il trattamento farmacologico.
L’inefficienza e l’inefficacia si traduce nella necessità, da un lato, di utilizzare maggiori dosaggi di antibiotici o trattamenti più lunghi, a parità di molecole utilizzate, mentre, dall’altro, di riuscire a trovare nuove molecole che siano selettive versi determinati ceppi batterici.
Negli ultimi anni il fenomeno della resistenza agli antibiotici si direbbe aggravato, come confermato più volte dall’ISS, Istituto Superiore di Sanità, ma anche da organizzazioni internazionali come l’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il problema della resistenza è complesso e di difficile approccio perché ha origine da molti fattori: in primis, l’aumentato uso dei farmaci, compreso l’utilizzo non appropriato, successivamente, la maggiore diffusione delle malattie ospedaliere da organismi antibiotico-resistenti, ed infine, l’aumento dei viaggi internazionali che pone di fronte ad una maggiore diffusione di ceppi batterici resistenti.
Al centro della problematica comunque vi è l’uso continuo e spesso inconsapevole degli antibiotici, che favorisce l’emergere, la moltiplicazione e la diffusione dei ceppi resistenti.
E questo è il punto in cui il paziente può intervenire: limitare l’uso di antibiotici ai casi unicamente seguiti a prescrizione di un medico, sulla base di una sintomatologia riconosciuta come avente agente infettante la causa principale.
Molto spesso infatti anche alla comparsa dei primi sintomi, ed in totale assenza di indicazioni mediche a riguardo, tendiamo immediatamente a prendere degli antibiotici, semmai conservati a casa dalla precedente terapia. Commettiamo un doppio errore: il primo, riguarda l’inconsapevolezza dell’uso degli antibiotici, con riferimento alla mancata certezza matematica che quell’antibiotico debba essere usato per quello specifico batterio; il secondo, più importante, se anche abbiamo usato quell’antibiotico per una patologia già trattata, non possiamo sapere se quel sintomo che abbiamo abbia la stessa causa della precedente.
E’ bene quindi osservare la massima attenzione possibile nella somministrazione di antibiotici, ed interfacciarsi per tempo, prima di cominciare una nuova terapia non prescritta dal medico, su base volontaria, col proprio medico di famiglia o col farmacista di fiducia.
Le donne con una pressione sanguigna alta prima della gravidanza, potrebbero essere soggette ad un incremento del rischio di aborto spontaneo.
E’ quanto emerge dal lavoro dei ricercatori che hanno analizzato i dati nello studio pubblicato in aprile 2018 sulla rivista scientifica “Hypertension”, relativo a 1228 donne che provavano ad avere una gravidanza, dopo aver precedentemente avuto un’interruzione di gravidanza. Delle 797 che hanno ottenuto una gravidanza, 188, circa un quarto, hanno perso di nuovo il nascituro.
Lo studio non ha trovato alcuna correlazione tra livelli alti di pressione e capacità di concepimento. Ma dopo aver indagato i vari fattori, tra cui fumo, indice di massa corporea, stato coniugale, educazione, razza, ed altri parametri, hanno individuato che per ogni incremento di 10 punti di pressione diastolica, vi era il 17% di incremento di rischio di interruzione di gravidanza.
Potrebbero esserci molte ragioni per l’aborto spontaneo, e spesso la causa è ignota. Ma l’infiammazione e la compromissione dei vasi sanguigni, che sono tipici dell’ipertensione, è stato visto avere un ruolo nell’interruzione di gravidanza.
“Il nostro studio è solo osservazionale e non può essere usato per stabilire la causa e l’effetto”, ha detto Carrie J. Nobles, autrice dello studio ed epidemiologista presso il National Institutes of Health. “Mantenere dei buoni livelli di pressione è molto importante, anche per la salute riproduttiva.”