Migliaia di italiani vengono sottoposti ogni anno ad interventi di rimozione delle tonsille o delle adenoidi per prevenire le infezioni o i disturbi del sonno o respirazione.
Tuttavia, un recente studio suggerisce che, a seguito di intervento chirurgico di rimozione delle tonsille o adenoidi, potrebbero esserci rischi di lungo termine in alcuni casi, che potrebbero superare i benefici sul breve termine.
A confermarlo è il lavoro “Association of Long-Term Risk of Respiratory, Allergic, and Infectious Diseases With Removal of Adenoids and Tonsils in Childhood” pubblicato sulla rivista scientifica Otolaryngology-Head & Neck Surgery, edita da JAMA.
Lo studio ha analizzato i dati di 60,667 bambini danesi, sotto i nove anni, sottoposti ad interventi di rimozione delle tonsille, delle adenoidi o entrambi, confrontandoli con quelli di circa un milione e cento bambini che non hanno avuto l’operazioni.
Dopo aver verificato altri fattori di salute, i ricercatori hanno scoperto che la tonsillectomia era associata ad un rischio di insorgenza di patologie alle vie respiratorie superiori di circa tre volte superiore.
Per quanto riguarda invece gli interventi di adenoidectomia, sono stati associati al raddoppio del rischio di disturbo polmonare ostruttivo, malattie del tratto respiratorio superiore e congiuntivite.
Lo studio ha evidenziato he la chirurgia ha alcuni benefici di breve termine, nel caso di respirazione anormale, sinusiti ed infezioni alle orecchie, tuttavia i rischi a lungo termine sono stati significativamente alti dopo gli interventi.
Secondo il Dr. Bayars, a capo dei ricercatori che hanno condotto lo studio, «questo è il primo che guarda ai rischi di lungo termine. Sapere che in alcuni casi potrebbero esserci rischi futuri, a seguito di intervento, potrebbe essere utile non intervenire, usando farmaci ed altri rimedi. L’analisi attenta della condizione di salute del malato, tuttavia, può essere una buona strategia da seguire quando la condizione non è severa».
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Il servizio informativo per i pazienti del centro “L’Incontro” a Teano (CE).
Essere vedovi, divorziati o mai sposati aumenta il rischio di malattie cardiovascolari, al contrario il matrimonio riduce il rischio di tali malattie e di morte. Sono questi i risultati di una meta-analisi pubblicata sulla rivista scientifica Heart, che include i dati su oltre due milioni di partecipanti in 34 studi condotti in 15 Paesi, inclusi Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Russia, Svezia, Spagna, Grecia.
I ricercatori hanno scoperto che, rispetto alle persone sposate, coloro che non erano sposati – mai sposati, vedovi o divorziati – avevano il 42% di probabilità in più di avere qualche forma di malattia cardiovascolare e il 16% di probabilità in più di avere una malattia coronarica. I non sposati, inoltre, hanno mostrato un aumento del 43% delle probabilità di morte per coronaropatia e un aumento del 55% del rischio di morte per ictus. Essere divorziati era associato a maggiori probabilità di sviluppare coronaropatia sia per gli uomini che per le donne, mentre i vedovi avevano maggiori probabilità di sviluppare un ictus. Uomini e donne single che avevano subito infarto miocardico hanno invece avuto un aumento della mortalità rispetto a quelli sposati.
Gli autori riconoscono che lo studio presenta alcuni punti deboli, poiché mentre la maggior parte delle analisi è stata regolata su variabili multiple, tali variabili cambiano da studio a studio, e inoltre alcuni fattori non sono stati considerati, inclusi la stabilità finanziaria, l’aderenza ai farmaci e il supporto sociale. Eppure gli esiti della meta-analisi suggeriscono che lo stato civile può influenzare lo sviluppo di malattie cardiovascolari e le relative prognosi, dunque dovrebbe essere preso in considerazione nella valutazione del rischio per malattie cardiovasolari e sicuramente merita ulteriori indagini.
‹‹L’estensione del supporto familiare è difficile da determinare – ha spiegato il dott. Chun Shing Kwok, coautore dello studio e cardiologo presso la Keele University in Inghilterra – anche quando si riesce a delineare l’effetto della convivenza. Tuttavia i nostri risultati suggeriscono che sia gli uomini che le donne traggono beneficio dal matrimonio››.
Una buona dose di fitness, anche iniziando nella mezza età, riduce il rischio di depressione in età avanzata e di morte per malattie cardiovascolari, è questa la conclusione dello studio americano Midlife Fitness and the Development of Chronic Conditions in Later Life, pubblicato sulla rivista JAMA Psychiatry.
Sia la depressione che le malattie croniche, soprattutto cardiovascolari, sono comuni nelle persone anziane e i tassi di depressione sono alti in presenza di malattie cardiovascolari, specialmente di ictus. Inoltre la depressione è un fattore di rischio di morte nei pazienti con malattie cardiovascolari.
L’associazione tra fitness e mortalità, dopo modifiche di altri fattori di rischio, è ormai stabilita, ciò che invece rimaneva insondata era la correlazione tra ginnastica e sviluppo o meno di condizioni croniche non fatali in età avanzata, incluse depressione e malattie cardiovascolari.I ricercatori del Cooper Institute di Dallas hanno quindi raccolto i dati dal 1970 di 18.670 soggetti di ambo i sessi, di età media di partenza di 50 anni, che al 2009 avevano compiuto almeno 65 anni. Di questi hanno raccolto informazioni sulla salute e sulle abitudini comportamentali, compresa la pratica o meno di ginnastica aerobica (camminate, jogging, corsa), e ne hanno seguito gli sviluppi per una media di 26 anni. Tra di essi vi erano 2.701 diagnosi di depressione e 841 decessi cardiovascolari.
Nel campione esaminato, i tassi di depressione e di malattie cardiovascolari sono diminuiti costantemente con l’aumento della forma fisica nella mezza età. Rispetto a coloro che praticavano meno attività fisica, le persone più dedite al fitness mostravano il 16% in meno di probabilità di sviluppare depressione, il 61% in meno di probabilità di avere malattie cardiovascolari senza depressione e il 56% in meno di probabilità di morire di malattie cardiovascolari a seguito di depressione.
In questa coorte di adulti sani di mezza età, la pratica del fitness era dunque associata ad un livello di rischio significativamente inferiore di sviluppare malattie croniche durante i 26 anni di follow-up. Questi risultati suggeriscono che una maggiore attività fisica durante la mezza età può essere associato alla compressione di morbilità in età avanzata: ‹‹C’è una connessione a lungo termine tra fitness, depressione e morte cardiovascolare – ha spiegato l’autore principale, il dott. Benjamin L. Willis, direttore di Epidemiologia presso il Cooper Institute di Dallas – Ed è qualcosa che puoi affrontare con un comportamento modificabile. Non è mai troppo tardi per scendere dal divano e iniziare a fare attività fisica››.
Con la sempre più alta diffusione e frequentazione di spazi condivisi come, ad esempio, i centri benessere, si è recentemente riproposta la questione della sicurezza nell’uso del tradizionale sapone in barrette rispetto al sapone liquido, si è infatti diffuso il timore che lavarsi le mani con una saponetta già utilizzata da altri possa trasmettere infezioni.
Tale timore è però infondato, e a fare chiarezza in merito è stato qualche giorno fa il dott. Richard Klasco (membro del Dipartimento di Medicina d’Urgenza della Medical School di Harvard), che sulle pagine del New York Times ha ribadito che la saponetta non ha la capacità di trasmettere malattie e il suo uso non causa rischi per la salute, nemmeno se avviene in luoghi molto frequentati come i centri benessere, e a provarlo sono i numerosi studi effettuati negli ultimi cinquant’anni.
Lo studio più rigoroso sul tema fu pubblicato nel 1965. Gli scienziati condussero una serie di esperimenti in cui intenzionalmente contaminarono le loro mani con circa cinque miliardi di batteri, ceppi patogeni come Stafilococco ed Escherichia Coli. Dopo la contaminazione, ognuno di essi si lavò le mani con una saponetta e con quella stessa saponetta fece lavare una seconda persona non contaminata. Ebbene non vi fu alcun trasferimento di batteri tra i due soggetti, dunque gli studiosi conclusero che ‹‹il livello di batteri che possono arrivare sulle saponette, anche in condizioni di utilizzo estreme (uso intenso, piatti di sapone non drenanti progettati male, ecc.), non costituisce un rischio per la salute››.
Nel 1988 un produttore di sapone commissionò un altro studio che sostanzialmente confermò questi risultati. Gli scienziati inocularono Escherichia coli e Pseudomonas nelle barrette di sapone, e con queste fecero lavare le mani a 16 soggetti, ma dopo il lavaggio nessuno di essi mostrò livelli rilevabili di batteri. Così gli scienziati conclusero che ‹‹nel lavaggio quotidiano delle mani con saponette precedentemente utilizzate, il rischio è molto basso››.
Da allora studi occasionali hanno documentato la presenza di batteri ambientali sulle saponette, ma nessuno di essi ha dimostrato che queste diventino fonte di infezione. Al contrario, studi recenti continuano a dimostrare la capacità del semplice saponetta di combattere le infezioni, persino durante epidemie di infezioni gravi come il virus Ebola.
Ma una bottiglia di sapone liquido sarebbe una scelta migliore della saponetta? A partire dagli anni 80, scienziati con interessi proprietari contrastanti si sono scontrati sui presunti benefici del sapone in barretta rispetto al sapone liquido. Gran parte della contesa ruotava attorno al numero di batteri trovati sulla superficie della saponetta o della bottiglia di sapone. Ma la domanda chiave rimane non se i batteri ambientali sono presenti ma se essi rappresentano un rischio di infezione.
I Centri nazionali per il controllo e la prevenzione delle malattie, seguendo le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, raccomandano il lavaggio delle mani con il sapone come difesa primaria contro le infezioni, senza distinzione tra l’uso del sapone in barrette e quello in forma liquida. Pertanto, l’unico errore da non commettere, è quello di rinunciare a lavarsi le mani a causa di una paura infondata di contaminazione.
Come lavarsi correttamente le mani secondo l’OMS? Bagnare le mani con acqua corrente pulita (calda o fredda) e applicare sapone su tutta la loro superficie, strofinandole insieme, con gesti che puliscano a fondo i palmi, i dorsi, le dita, le zone tra le dita e sotto le unghie. Continuare questa operazione per almeno 20 secondi. Infine risciacquare le mani sotto l’acqua corrente pulita, chiudere le manopole del lavandino con una salvietta pulita e asciugare le mani con un asciugamano pulito. Tutta l’operazione deve durare almeno 40-60 secondi, il tempo di canticchiare due volte la canzoncina di “Buon Compleanno”.
Il KIT: antidolorifici, antinfiammatori e antipiretici, contro dolore e febbre (ad esempio paracetamolo, ibuprofene e acido acetilsalicilico); un farmaco per la nausea da viaggio; antidiarroici, utili soprattutto se si affrontano viaggi in Paesi dove le condizioni igieniche sono precarie, per contrastare i sintomi della cosiddetta “diarrea del viaggiatore”; una crema a base di idrocortisone allo 0,5%, per lenire punture di insetto e scottature; materiali per il primo soccorso, ovvero cerotti, garze e disinfettanti; in caso di terapia giornaliera, non dimenticarsi i farmaci che si usano abitualmente E’ buona regola, per ognuno di questi farmaci, portarsi dietro quelli già “collaudati”, onde evitare effetti indesiderati.
DOVE E COME Di norma i farmaci andrebbero conservati a una temperatura non superiore ai 25° C, dunque dovrebbero essere riposti sempre in luoghi freschi e asciutti, in casa, ad esempio, è meglio prediligere il salotto, la camera da letto o il ripostiglio. Le stanze più calde o soggette a maggiore umidità come la cucina e il bagno, invece, non sono l’ideale perché a lungo andare potrebbero alterarNE caratteristiche e qualità.
In aereo – riporre i farmaci nel bagaglio a mano. Se Si segue una terapia con farmaci salvavita, è necessario accompagnarli con le relative ricette di prescrizione, che potrebbero essere richieste nelle fasi dei controlli di sicurezza in aeroporto. I liquidi di volume non superiore a 100 ml possono essere trasportati all’interno del bagaglio a mano e devono essere riposti in una busta di plastica trasparente e richiudibile, da presentare separatamente durante le fasi di controllo. Nel caso in cui i liquidi superino il volume di 100 ml, invece, se devono essere utilizzati durante il viaggio a fini medici o per un regime dietetico speciale (come nel caso degli alimenti per neonati), sono ammessi solo nella quantità necessaria alla durata del viaggio e vengono sottoposti a controllo. Non c’è alcuna restrizione, invece, per medicinali solidi come compresse e capsule.
In auto – Evitare cruscotto e bagagliaio, specie se la macchina rimane parcheggiata in una zona soleggiata per ore, piuttosto scegliere di trasportarli nell’abitacolo condizionato. I farmaci però non devono mai restare a contatto con accumulatori di freddo, poiché anche le temperature troppo basse rischiano di danneggiarli; se i prodotti liquidi come le insuline dovessero congelarsi, infatti, potrebbero subire alterazioni. Se si portano medicinali per una terapia quotidiana che necessitano di una temperatura tra i 2° e gli 8° C, può essere utile ricorrere ai contenitori termici refrigeranti per medicinali. Vanno tenuti al fresco anche alcuni test che si usano per la glicemia, la gravidanza e l’ovulazione e i farmaci spray, poiché anche questi prodotti patiscono l’umidità e il calore. E’ bene comunque verificare le singole modalità di conservazione indicate sulla confezione o sul foglietto informativo. Stesse regole valgono per il trasporto in treno, e tutti quei prodotti che non richiedono un contenitore termico, possono essere riposti nel bagaglio.
IN CASO DI ERRORE: Se i farmaci vengono lasciati a temperature superiori ai 25° C per una o due giornate, prima di utilizzarli, è necessario controllarne bene l’aspetto e verificare che non appaiano diversi dal solito, che non abbiano cambiato odore, colore o consistenza, e che non ci sia la presenza di particelle solide in sospensione o sul fondo.