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Un’aspirina al giorno per proteggere il cuore? Dipende dal peso

Un’aspirina al giorno a basso dosaggio è ampiamente raccomandata per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, ma l’approccio standard “una dose uguale per tutti” potrebbe non funzionare. Una nuova analisi pubblicata sulla prestigiosa rivista The Lancet ha esaminato i dati di 10 studi randomizzati, per un totale di più di 117 mila partecipanti, e ha rilevato che c’è una correlazione tra dosaggio dell’aspirina e peso e altezza corporei, con effetti significativi sul risultato della terapia, che deve quindi adeguata alle caratteristiche e le necessità dei singoli pazienti.

I ricercatori del National Institute for Health Research Oxford Biomedical Research Centre hanno infatti scoperto che una dose giornaliera da 75 a 100 milligrammi di aspirina riduce il rischio di eventi cardiovascolari nei pazienti che pesano meno di 70 kg, ma non ha alcun effetto nell’80 % degli uomini e nel 50% delle donne che hanno un peso superiore, anzi in questi aumenta il rischio di un evento cardiovascolare fatale. Mentre dosi più elevate – da 325 a 500 milligrammi al giorno – hanno mostrato un’interazione inversa con il peso e l’altezza, risultando efficaci nell’abbassare il rischio cardiovascolare solo nelle persone che pesavano più di 70 kg.

Questi risultati si riscontrano negli uomini e nelle donne, nei pazienti con diabete e nella prevenzione secondaria dell’ictus. Nell’ambito dello stesso studio, sono stati anche analizzati gli effetti dell’aspirina rispetto ad altri esiti come il cancro, e si è palesata anche in questo caso la medesima correlazione con le dimensioni corporee. Il farmaco a basso dosaggio ha ridotto il rischio a lungo termine di tumore del colon-retto in persone di peso inferiore a 70 kg, ma non in quelle che superano quel peso, mentre un alto dosaggio ha ridotto il rischio di cancro nelle persone tra i 70 e gli 80kg, ma non in quelle più pesanti. Inoltre, l’ulteriore stratificazione dei pazienti ha rivelato danni causati dall’eccessibo dosaggio, con aumento del rischio a breve termine di cancro nei partecipanti con peso e statura bassi di età uguale o superiore a 70 anni.

Per converso, si è potuto osservare una notevole riduzione degli eventi cardiovascolari e morte per tutte le cause quando la dose di aspirina somministrata era adeguata al peso, e ciò suggerisce che esiste una finestra terapeutica correlata alle dimensioni corporee all’interno della quale una dose giornaliera di aspirina è davvero efficace, e bisogna dunque usare strategie personalizzate per sfruttarla al meglio.

‹‹Ci sono un miliardo di persone in tutto il mondo che assumono l’aspirina regolarmente e ogni studio randomizzato si basa sulla stessa dose uguale per tutti i pazienti. Potremmo aver sbagliato in questo, dovremmo adattare il dosaggio all’individuo, come facciamo con altri farmaci››, ha ammesso Peter M. Rothwell, autore principale dello studio e professore di neurologia all’Università di Oxford.

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Caffeina in gravidanza? Studio conferma: «Meglio evitarla»

La caffeina è la sostanza psicoattiva più largamente consumata. Tra i consumatori anche le donne in stato di gravidanza: l’82% delle donne incinte statunitensi e il 91% di quelle francesi ha dichiarato di assumere quotidianamente caffeina. Jack James, psicologo dell’università di Reykjavik, in Islanda, ha effettuato una rassegna della letteratura che esaminava i danni sul nascituro provocati dalla caffeina introdotta dalla madre. Le autorità sanitarie, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), sono generalmente concordi nel consigliare alle gestanti di limitare l’apporto giornaliero a 200 mg, l’equivalente di circa due tazze di caffè moderatamente forte. Ciononostante, la conoscenza della farmacologia della caffeina suggerisce potenziali danni fetali causati dal consumo materno della sostanza. La caffeina è infatti in grado di attraversare rapidamente la barriera placentare, esponendo il feto a concentrazioni simili a quelle che si ritrovano nel sangue della madre.

Il consumo abituale di caffeina determina una dipendenza fisica, con le manifestazioni di una vera e propria crisi d’astinenza a seguito della diminuzione della sua assunzione anche di soli 100 mg al giorno, caratterizzate da sonnolenza, letargia e cefalea. La sostanza è classificata come “droga d’abuso” e nei bambini nati da madri che l’avevano consumata nel corso della gravidanza sono stati osservati sonno disturbato, vomito, battito cardiaco e respirazione irregolari e tremore fine, sintomi simili a quelli della sindrome di astinenza neonatale da narcotici.

Come fonti letterarie James ha consultato i database di PubMed e Google Scholar, associando i termini relativi a risvolti negativi della gravidanza con la parola “caffeina” o i nomi di prodotti che la contengono, come caffè, tè e bevande energetiche. Dalla ricerca sono emersi 1261 articoli in lingua inglese pubblicati nei due decenni passati, di cui, scartando quelli doppi e considerando solo quelli scientificamente rilevanti, ne sono stati analizzati 48. Gli effetti negativi sulla gravidanza sono stati raggruppati all’interno di 6 categorie principali: aborto spontaneo, natimortalità, cioè numero dei nati morti, basso peso alla nascita e/o per età gestazionale, parto pretermine, leucemia acuta nell’infanzia e sovrappeso e obesità infantili.

Dagli studi presi in considerazione è emerso in maniera quasi unanime il riconoscimento dell’associazione tra consumo di caffeina da parte della madre e quattro delle categorie sopracitate: aborto, natimortalità, basso peso alla nascita e leucemia acuta. Non è stata identificata alcuna analisi che suggerisse l’esistenza di un legame significativo tra consumo materno di caffeina e sovrappeso e obesità infantili. James ha concluso la sua pubblicazione sostenendo che le attuali raccomandazioni sul consumo di caffeina in gravidanza da parte delle autorità esperte in materia necessitino di una revisione radicale. In particolare, le prove scientifiche a disposizione non supporterebbero il presupposto che il consumo “moderato” della sostanza sia sicuro: secondo l’autore sarebbe bene che le donne incinte e che desiderano una gravidanza evitassero del tutto la caffeina.

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Una scarsa igiene può aggravare la diffusione di batteri resistenti agli antibiotici

In che modo l’interazione tra scarsa igiene e uso di antibiotici contribuisce alla colonizzazione dei batteri resistenti agli antimicrobici (Amr) negli esseri umani? A questa domanda hanno provato a rispondere i ricercatori della Paul G. Allen School for Global Animal Health (Allen School) e dell’Universidad del Vale de Guatemala (UVG) della Washington State University, i quali hanno portato a termine uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports. Come è noto, infatti, la resistenza agli antibiotici è un grave fenomeno che contribuisce a centinaia di migliaia di morti ogni anno. Si tratta di un problema che vede l’incapacità degli antibiotici di funzionare correttamente a causa delle resistenze appunto generate da specifici batteri che, per essere debellati, richiedono dunque antibiotici sempre più potenti.

Osservando le famiglie nelle comunità guatemalteche rurali e urbane i ricercatori hanno esaminato come la distribuzione di Escherichia coli resistente agli antimicrobici fosse correlata alla densità della popolazione, all’accesso alle terapie antibiotiche, ai servizi igienico-sanitari e agli indicatori di igiene come l’accesso all’acqua pulita e la prevalenza della defecazione aperta e la preparazione del cibo e pratiche di consumo di latte. I risultati dello studio hanno confermato che la resistenza antimicrobica era associata a una crescente frequenza di uso di antibiotici, scarsa igiene domestica, consumo di latte ed episodi di diarrea.

«Una migliore gestione degli antibiotici, compreso il controllo dell’accesso non regolamentato agli antibiotici è fondamentale per ridurre la prevalenza di batteri resistenti agli antimicrobici, ma la sola amministrazione non avrà un impatto con successo sulla prevalenza della resistenza quando l’igiene è compromessa», sostengono gli autori dello studio.

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Inquinamento da microplastiche, anche le zanzare lo subiscono: ecco perché è dannoso

Le microplastiche, ovvero i residui di plastica di diametro inferiore ai 5mm, sono estremamente pericolose per l’inquinamento ambientale, soprattutto per gli habitat marini e acquatici, perché di più facile ingestione da parte degli organismi viventi. Non sono immuni da questo pericolo anche le tanto odiate zanzare, che pure rivestono un ruolo importante nei gradini più bassi della catena alimentare essendo preda di diversi animali di terra e volatili, tra cui libellule, ragni, rondini e pipistrelli.

Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Biology Letters di The Royal Society, ha dimostrato che quando una larva di zanzara mangia particelle di microplastica, quella plastica può rimanere nel corpo dell’insetto fino all’età adulta ed essere trasferita a qualsiasi organismo possa mangiare quella zanzara, trasferendo la contaminazione dall’habitat acquatico a quello terrestre e aereo. Le zanzare si sviluppano attraverso quattro fasi larvali di alimentazione e uno stadio pupale, trasformandosi infine in un adulto volante. Come modello di studio è stata scelta la zanzara Culex, data la sua presenza in tutto il mondo e l’ampia diffusione in vari habitat.

Lo studio è stato condotto in laboratorio e ha analizzato se i granuli di polistirene fluorescente di diversa grandezza possano trasferirsi dallo stadio di larva di zanzara a quello di adulto volante. I granuli fluorescenti sono stati scelti per consentire di rilevare facilmente le microplastiche negli stadi di sviluppo della zanzara e anche per consentire un’indagine sulla posizione all’interno del corpo durante la metamorfosi.

Lo studio ha dimostrato che le particelle più piccole di microplastica sono state trasferite più facilmente nello stadio adulto della zanzara rispetto alle particelle più grandi. Il trasferimento di microplastica negli adulti è stato confermato mediante microscopia a fluorescenza in cui i granuli sono stati rilevati nell’addome dell’adulto, in particolare all’interno dei tubuli malpighiani.

I risultati dello studio hanno implicazioni importanti perché dimostrano che ogni stadio di vita acquatica che è in grado di consumare microplastiche e trasferirle nella fase di vita terrestre è un potenziale vettore di inquinamento su nuovi habitat aerei e terrestri. In questo caso lo studio ha preso come modello la zanzara Culex, ma qualsiasi insetto d’acqua dolce che può ingerire microplastiche probabilmente trasmetterà la plastica in uno stadio adulto terrestre.

L’ingestione di organismi contaminati da microplastiche da parte di altri esseri viventi non è nuova e la diffusa distribuzione di microplastiche negli ambienti marini significa che animali come pesci e molluschi venduti per il consumo umano sono contaminati, con un conseguente trasferimento di microplastiche tra i vari livelli della catena alimentare.

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L’uso di antibiotici nella prima infanzia è un fattore di rischio per malattie infiammatorie intestinali

Le malattie infiammatorie intestinali spesso esordiscono nella popolazione in età pediatrica. Alla base di queste patologie vi sono disturbi della risposta immunitaria in soggetti geneticamente predisposti, in cui si verifica un attacco del sistema deputato alla difesa dell’organismo verso la flora microbica commensale, vale a dire quei batteri che normalmente popolano l’intestino senza arrecare danni né vantaggi. Nei pazienti con malattie infiammatorie intestinali è dunque frequente la disbiosi intestinale, una condizione di squilibrio microbico con prevalenza dei batteri patogeni all’interno dell’apparato digerente, che ne causano l’irritazione.

Uno studio condotto da Kronman et al tra il 1994 e il 2009 e pubblicato nel 2012 sulla rivista Pediatrics ha evidenziato la relazione tra l’esposizione agli antibiotici nei primi anni di vita e lo sviluppo di patologie infiammatorie a carico dell’intestino. Questo studio è stato supportato anche da analisi precedenti che avevano sottolineato come un microbioma “adulto” relativamente stabile si raggiunga non prima dell’età di 12 mesi. Si è trattato di uno studio di coorte retrospettivo: in questo tipo di analisi viene considerato un fattore di rischio, in questo caso specifico l’utilizzo di alcune classi di antibiotici, e viene monitorato nel tempo un campione di soggetti privi di malattia, cioè bambini del Regno Unito che sono stati seguiti per due anni, al fine di valutare il rischio assoluto di sviluppare malattie infiammatorie intestinali.

Gli individui non esposti agli antibiotici sono stati confrontati con quelli che presentavano disturbi intestinali di natura infiammatoria dovuti all’assunzione di antibiotici attivi contro batteri anaerobi, che non hanno bisogno di ossigeno per sopravvivere, come ad esempio amoxicillina, ampicillina, tetracicline, clindamicina, metronidazolo. Nel secondo gruppo di bambini è emersa una correlazione con il successivo sviluppo di patologie infiammatorie intestinali. È stato osservato che questo legame risulta meno rilevante all’aumentare dell’età di esposizione e che esiste un effetto dose-risposta: lo sviluppo delle malattie in questione era più probabile nei bambini sottoposti a due o più cicli di antibiotici rispetto a quanto accadeva nel caso di uno o due cicli di terapia.

Nonostante i risultati evidenziati, gli studiosi spiegano che resta ancora da chiarire il ruolo di altri fattori rilevanti durante la prima infanzia, come l’allattamento e lo svezzamento, che potrebbero proteggere sia dalle infezioni che dalle malattie infiammatorie intestinali. Ad ogni modo, lo studio fornisce un valido motivo per monitorare accuratamente l’appropriatezza delle prescrizioni di antibiotici nei primi anni di vita, in quanto questi farmaci risultano implicati in numerose malattie immuno-mediate.