«La fisioterapia nel mondo tra ricerca e innovazione», è questo il titolo al centro della Giornata mondiale della fisioterapia che sarà celebrata domenica 8 settembre 2019. La giornata, spiega l’Associazione italiana fisioterapisti (Aifi) «è un’opportunità in tutto il mondo per sensibilizzare il cittadino circa il fondamentale contributo che il fisioterapista può dare per la salute delle persone». Il fisioterapista, come ricorda la stessa Aifi, «è un professionista della sanità in possesso del diploma di laurea o titolo equipollente, che lavora, sia in collaborazione con il medico e le altre professioni sanitarie, sia autonomamente, in rapporto con la persona assistita, valutando e trattando le disfunzioni presenti nelle aeree della motricità, delle funzioni corticali superiori e viscerali conseguenti ad eventi patologici, a varia eziologia, congenita o acquisita». È utile ricordare, a tal proposito, che il fisioterapista ha l’obbligo di iscrizione all’Ordine dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione.
In occasione della ricorrenza dell’8 settembre numerose farmacie sul territorio ospiteranno al loro interno dei fisioterapisti con l’obiettivo di fornire informazioni utili ai pazienti «sul tema del dolore cronico – si legge sul sito dell’Aifi – e sul ruolo che la fisioterapia e l’attività fisica possono avere nell’aiutare le persone a gestire il dolore cronico». Perché nelle farmacie? La legge 69/2009, cosiddetta “Farmacia dei servizi”, prevede che nelle farmacie opportunamente organizzate e con spazi adeguati, possano operare infermieri e fisioterapisti, nell’esercizio delle loro rispettive funzioni. In tal modo diverse farmacie pubbliche e private territoriali possono erogare al loro bacino di utenza di riferimento servizi a valore aggiunto, sebbene non rimborsati dal Ssn.
Autore: L'Incontro
Il servizio informativo per i pazienti del Centro "L'Incontro" a Teano (CE).
I ricercatori dell’Università di Lancaster, dell’Università di Bamberga e dell’Università Friedrich-Alexander di Erlangen-Norimberga, hanno scoperto che gli utenti che cercavano distrazione all’interno della piattaforma di Facebook come meccanismo per far fronte allo stress causato dalla stessa piattaforma, piuttosto che spegnere e intraprendere un’altra attività, erano maggiormente influenzati dall’utilizzo di tale strumento. Come è noto, Facebook e Instagram possono causare diversi stress agli utenti, noti come “technostress” dai social media. Tuttavia, di fronte a tale stress, invece di spegnere tali dispositivi o usarli di meno, le persone si spostano da una piattaforma all’alta, peggiorando ulteriormente la fase di stress.
Lo studio in oggetto ha analizzato le abitudini di 444 utenti di Facebook, social network più diffuso, evidenziando che tali persone sarebbero passate da attività come chattare con gli amici, leggere feed di notizie e pubblicare aggiornamenti sul loro profilo, dal momento in cui avevano sviluppato stress per l’uso della piattaforma. Ciò portando ad una maggiore probabilità di dipendenza dalla tecnologia, poiché utilizzavano i vari elementi della piattaforma in un arco di tempo maggiore. Anche quando gli utenti sono stressati dall’uso dei social media, usano le stesse piattaforme per far fronte a tale stress, deviandosi attraverso altre attività sui social e, in definitiva, costruendo comportamenti compulsivi ed eccessivi. Di conseguenza, utilizzano ulteriormente i social network ambiente piuttosto che allontanarsi da esso, e si forma una dipendenza.
Sulla base di quanto evidenziato, gli esperti suggeriscono di imitare l’uso dei social quanto più possibile. Proprio come si sono adoperati diversi giovani in Trentino Alto Adige i quali – secondo quanto riportato dal giornale online “l’Adige” – con l’obiettivo di «costruire connessioni tra montagna e città in maniera moderna», ma anche «aiutare i giovani a disintossicarsi dalla digitalizzazione quotidiana per recuperare la concentrazione e l’interesse verso l’ambiente montano», hanno raggruppato 20 studenti e giovani lavoratori trentini (18-30 anni) e 30 studenti dell’Università degli studi Milano-Bicocca, i quali a fine agosto hanno preso parte ad un innovativo campo estivo a contatto con la natura.
Passare almeno 120 minuti a settimana nella natura può favorire lo sviluppo di una buona salute e di benessere. Non è solo un modo di dire ma il risultato di un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica “Nature”. Il lavoro, dal titolo «Spending at least 120 minutes a week in nature is associated with good health and wellbeing», ha esaminato in che modo in che modo il contatto settimanale con la natura può influenzare la salute e benessere degli individui. Nello studio pubblicato sono stati monitorati 19.806 volontari e osservato il loro contatto settimanale con spazi verdi, riscontrando che per coloro che passavano un tempo pari a 120 minuti a settimana nel verde venivano riportati migliore salute e benessere. Secondo quanto rilevato dai ricercatori, inoltre, le associazioni positive tra ambiente e salute hanno raggiunto un picco in coloro che trascorrevano tra i 200 e i 300 minuti del tempo settimanale in un’area verde.
Come è noto, diversi studi in passato hanno dimostrato che una maggiore esposizione o contatto con ambienti naturali, tra cui parchi, boschi e spiagge, è associata a una migliore salute e benessere. Ciò tra le popolazioni ad alto reddito, in gran parte urbanizzate. Vivere in aree urbane più verdi è associato a minori probabilità di malattie cardiovascolari, obesità, diabete, ricovero in ospedale per asma, distress mentale ed infine mortalità tra gli adulti. Nello studio portato a termine i ricercatori hanno compreso meglio le relazioni tra il tempo trascorso in natura a settimana e la salute personale e il benessere soggettivo. La crescente evidenza di un’associazione positiva tra il contatto con gli ambienti naturali e la salute e il benessere ha portato a richieste per una migliore comprensione di eventuali relazioni esposizione-risposta. L’esposizione è stata definita in termini di minuti riportati in ambienti naturali per attività ricreative negli ultimi sette giorni; e i risultati erano la salute auto-segnalata e il benessere soggettivo.
Ne consegue che, alla luce di quanto evidenziato dai ricercatori, trascorrere quanto più tempo possibile a contatto con la natura, influenza positivamente la salute ed il benessere fisico e mentale.
Un recente lavoro portato a termine dai ricercatori dell’università della California riaccende i riflettori sulla correlazione tra esposizione ai pesticidi e salute nell’uomo. Nello specifico, il nuovo studio è uno dei primi a utilizzare l’imaging cerebrale avanzato per rivelare come l’esposizione a sostanze chimiche cambia il cervello. Gli organofosfati sono tra le classi di pesticidi più comunemente utilizzate negli Stati Uniti. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of National Academy of Sciences, ha utilizzato l’imaging funzionale nel vicino infrarosso (fNIRS) per monitorare il flusso sanguigno nel cervello di 95 adolescenti nati e cresciuti nella Salinas Valley in California, dove l’irrorazione agricola dei pesticidi è comune.
Ebbene, rispetto ai loro coetanei, lo studio ha rilevato che gli adolescenti hanno livelli più elevati di esposizione prenatale agli organofosfati hanno mostrato un’alterata attività cerebrale durante l’esecuzione di compiti che richiedono il controllo esecutivo. I ricercatori hanno scoperto a tal proposito che gli adolescenti con una maggiore esposizione prenatale agli organofosfati avevano meno flusso sanguigno verso la corteccia frontale quando erano impegnati in compiti che testano la flessibilità cognitiva e la memoria visiva di lavoro e che avevano più flusso sanguigno verso i lobi parietali e temporali durante i test della memoria di lavoro linguistica.
Si sa poco sulla correlazione tra esposizione ai pesticidi e cervello, quindi non è chiaro perché l’esposizione agli organofosfati sia associata a un’attività cerebrale più bassa per alcuni compiti e attività cerebrale più alta per altri. Tuttavia, modelli simili sono stati osservati in altre condizioni che colpiscono il cervello, incluso il diabete di tipo 1, il Parkinson e l’Alzheimer. «Questi risultati sono convincenti – spiega Sharon Sagiv, professore associato associato di epidemiologia presso l’UC Berkeley e autore principale dello studio -, perché supportano ciò che abbiamo visto con i nostri test neuropsicologici, ovvero che gli organofosfati hanno un impatto sul cervello».
Il 20 agosto 2019, come ogni anno, è stata celebrata la Giornata mondiale della zanzara. L’evento, promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha avuto come obiettivo la sensibilizzazione sull’importanza della lotta alla malaria ma anche delle malattie trasmesse da vettori. Nello specifico, secondo quanto riferito dall’Oms, queste patologie interessano il 17% di tutte le malattie infettive provocando oltre 700mila decessi ogni anno, di cui 400mila a causa della malaria. L’evento annuale si celebra per ricordare Ronald Ross, ufficiale medico dell’esercito britannico, che nel 1897 scoprì in India il ruolo cruciale delle zanzare nella catena di trasmissione della malaria. Solo in seguito lo scienziato italiano Giovanni Battista Grassi scoprì che le zanzare responsabili della trasmissione della malaria umana erano del genera Anopheles.
In occasione della giornata l’Istituto superiore di sanità ha evidenziato le regole principali per difendersi dalle zanzare e prevenire la diffusione di una serie di malattie. Nello specifico, di «applicare zanzariere a finestre e porte», «in ambienti chiusi è consigliabile l’utilizzo dei fornelletti a piastrina o a ricarica liquida e devono essere accesi sempre a finestre aperte». Mentre, «all’aperto è preferibile usare zampironi e candele alla citronella». Dunque, «in ambienti come giardini o terrazzi è opportuno indossare indumenti a maniche lunghe e pantaloni». In aggiunta ai primi, l’Iss ha sottolineato che «quando si usano i prodotti insetto-repellenti da applicare sul corpo è necessario leggere attentamente le etichette riportate sulla confezione». A tal proposito, l’Iss sottolinea che «l’uso di un prodotto con una concentrazione di principio attivo insetto-repellente al di sotto del 20% è sufficiente per le nostre latitudini». Sempre in tema, l’Iss ha ricordato che «i prodotti insetto-repellenti da applicare sulla pelle con concentrazioni di principio attivo superiore al 30% vanno usati solo nei Paesi a rischio».
Inoltre, «non utilizzare prodotti insetto-repellenti nei bambini sotto i 2 anni di età. Dai 2 ai 12 anni scegliere accuratamente i principi attivi e limitarsi ad utilizzare una concentrazione del 10% senza superare le 2 applicazioni al giorno e fare in modo che a spalmarle sia sempre un adulto. Dai 12 anni in su nelle nostre latitudini prodotti inferiori al 20% di principio attivo proteggono anche fino a 6 ore», «evitare di applicare prodotti insetto-repellenti insieme alle creme solari e creme idratanti con schermo anti-UV», ed infine «non applicare prodotti insetto-repellenti su tagli, pelle irritata o precedenti punture di zanzara e lavarsi accuratamente le mani dopo l’applicazione».
