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Cancro al seno: prevenire il ritorno con dieta, sport e stop al fumo

Uno stile di vita corretto, che comprenda attività fisica regolare per almeno 150 minuti a settimana, una dieta sana con pochi grassi e l’eliminazione delle sigarette, potrebbero aiutare coloro che hanno già sviluppato un cancro al seno, a prevenire una recidiva. E’ quanto emerso in occasione del convegno nazionale “Carcinoma mammario, traguardi raggiunti e le nuove sfide”, tenuto a cura dell’Aiom, Associazione italiana di oncologia medica, e riportato da Ansa salute.
Secondo le stime, sono 52.800 le donne italiane che nel 2018 hanno avuto una diagnosi di tumore alla mammella, neoplasia divenuta più frequente in Italia, superando il cancro al colon. Sebbene l’87% delle donne supera con successo la malattia, sono poche le pazienti che modificano le abitudini e lo stile di vita, andando incontro a rischi di recidive.
Stefania Gori, presidente dell’Aiom, intervistata dall’Ansa, che spiega «la mancata adesione a queste semplici regole rischia di vanificare gli importanti risultati ottenuti con terapie sempre più efficaci». Come riportato, «una dieta troppo ricca di grassi, ad esempio, aumenta fino al 24% il rischio di recidiva del tumore della mammella e ciò dimostra il ruolo degli stili di vita sani nella cosiddetta prevenzione terziaria, che mira a evitare il ritorno della malattia. Ed ancora: bastano 150 minuti di attività fisica a settimana (come camminata veloce o giardinaggio) per ridurre del 25% la mortalità per tumore del seno nelle pazienti che hanno già ricevuto la diagnosi rispetto alle sedentarie. E ingrassare di 5 Kg può incrementare fino al 13% la mortalità per la neoplasia». Anche il fumo influenza negativamente il ritorno della patologia: «le donne che hanno abbandonato questa pericolosa abitudine ma che in passato hanno fumato da 20 a 35 sigarette presentano un rischio di ricomparsa di carcinoma della mammella del 22%, del 37% per le fumatrici di più di 35 sigarette e, addirittura, del 41% per coloro che non hanno mai smesso».

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Sedentarietà, studio conferma: siamo “programmati” per essere sedentari

Siamo nati per essere fisicamente pigri? Sembrerebbe di sì, e a rivelarlo è un nuovo e sofisticato studio elettroencefalografico appena pubblicato su Neuropsychologia. Anche quando le persone sono consapevoli dei benefici dell’esercizio fisico e prevedono di allenarsi, alcuni segnali elettrici all’interno del loro cervello possono spingerli verso la sedentarietà. Sono pochi, infatti, coloro che fanno esercizio fisico regolarmente, nonostante ne abbiano tutte le intenzioni, e spesso si attribuisce la colpa dell’inattività alla mancanza di tempo, strutture o capacità, ma stando a questo nuovo studio internazionale, la causa potrebbe essere più profonda e risiedere nel modo in cui è “cablato” il cervello umano. A lungo fisiologi, psicologi e professionisti del settore si sono interrogati sulle ragioni del gap tra la volontà di essere fisicamente attivi e il comportamento reale, che di solito va in direzione contraria. I processi automatici che regolano i comportamenti che includono l’esercizio fisico possono in parte spiegare questo paradosso, ma questi processi sino ad oggi sono stati studiati solo con risultati comportamentali, ovvero in base ai tempi di reazione. I ricercatori di questo studio, invece, utilizzando l’elettroencefalografia, hanno studiato l’attività corticale sottostante l’approccio automatico e la tendenza a evitare stimoli relativi ad attività fisica o comportamenti sedentari, in 29 giovani adulti fisicamente attivi oppure inattivi ma con l’intenzione di diventare fisicamente attivi.
I risultati comportamentali hanno mostrato reazioni più rapide quando ci si avvicinava all’attività fisica rispetto ai comportamenti sedentari, e reazioni più rapide quando si evitavano comportamenti sedentari rispetto a quelle volte ad evitare l’attività fisica. Tuttavia, queste ultime reazioni erano anche associate a più alti livelli di monitoraggio e inibizione dei conflitti, indipendentemente dal normale livello di attività fisica svolta. ‹I risultati dell’elettroencefalografia hanno suggerito che i comportamenti sedentari sono attraenti e che le persone che intendono essere attive hanno bisogno di attivare ulteriori risorse corticali per contrastare questa attrazione››, si legge nelle conclusioni dello studio. L’inattività fisica è dunque intrinsecamente gratificante per tutti. La differenza tra coloro che fanno esercizio fisico e i sedentari potrebbe risiedere nella loro diversa capacità di sfuggire alla forza attrattiva dei comportamenti sedentari attraverso risorse neurali aggiuntive o più efficienti.

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Allattamento al seno: è buono anche per la mamma, non solo per il bambino

E’ cosa risaputa che allattare al seno faccia bene alla salute del nascituro, tuttavia, gran parte dei medici raramente dicono alla mamma che è anche buono per la loro stessa salute.
Le donne che allattano al seno sono meno esposte al rischio di sviluppo di cancro al seno, tumore ovarico, diabete di tipo 2, artrite reumatoide ed hanno una migliore salute cardiovascolare. E’ questo in sintesi il risultato di uno studio pubblicato in America. Secondo i ricercatori, allattare al seno riduce di 4.3 punti percentuali il rischio di sviluppare un cancro al seno, per ogni 12 mesi di allattamento al seno, in aggiunta ad un decremento del 7 percento per ogni nascita. Allattare al seno è particolarmente protettivo contro alcune forme aggressive di tumore, chiamate “ormone recettore-negativo” o “tumore triplo negativo”, molto comune nelle donne Afro-Americane. Lo studio ha mostrato che le donne che allattano al seno sono meno propense a sviluppare il cancro alle ovaie, diabete di tipo due ed artrite reumatoide, nonché, hanno una migliore salute cardiovascolare.
Il Dr. Ramaswamy, professore associato in oncologia medica presso l’Università dell’Ohio, autore dello studio, ha spiegato che «mediante i risultati di questo studio abbiamo la possibilità di salvare vite umane», ponendo una domanda: «Siamo sicuri che (la classe medica, ndr) stia educando correttamente le madri al momento di fare la scelta difficoltosa di allattare al seno o no?». E continua: «Mentre le aziende commercializzano nuove “formule” di latte pediatrico, facendoli passare come buoni sostituti al latte materno, queste “formule” non aiutano le donne a vivere più a lungo».

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Vaccinazioni per le donne in età fertile e in gravidanza, quali sono quelle raccomandate?

Con l’obiettivo di migliorare la prevenzione delle patologie infettive in ogni fase della vita, il ministero della Salute ha emanato, già nell’agosto del 2018, una circolare contenente alcune linee guida per proteggere la donna e il nascituro in previsione e durante la gravidanza, attraverso specifici vaccini.
Per quanto riguarda le vaccinazioni in età fertile, si legge nel documento, «sono indicate, se non già immuni, le vaccinazioni contro morbillo, parotite, rosolia, varicella e papilloma virus (HPV)». Secondo il ministero riveste grande importanza anche «il richiamo decennale della vaccinazione contro difterite, tetano e pertosse».
Con riferimento alle vaccinazioni in previsione di una gravidanza, il ministero spiega che «è necessario che le donne siano protette nei confronti di morbillo‐parotite‐rosolia (MPR) e della varicella, dato l’elevato rischio, per il nascituro, derivanti dall’infezioni materna durante la gravidanza, specie se si verifica nelle prime settimane di gestazione. Per la varicella contratta nell’immediato periodo pre‐parto, il rischio, oltre che per il nascituro, può essere molto grave anche per la madre». Il ministero specifica inoltre che «poiché sia il vaccino MPR che quello della varicella sono controindicati in gravidanza, è necessario che, al momento dell’inizio della gravidanza, la donna sia già vaccinata regolarmente (con due dosi) da almeno un mese».
Particolare attenzione anche alle vaccinazioni raccomandate nel corso della gravidanza, ovvero «contro difterite, tetano, pertosse (dTpa) e influenza (se la gestazione si verifica nel corso di una stagione influenzale) – si legge nella nota -, che devono essere ripetute ad ogni gravidanza. Di grande rilievo è la vaccinazione dTpa da effettuare ad ogni gravidanza, anche se la donna sia già stata vaccinata o sia in regola con i richiami decennali o abbia avuto la pertosse. Infatti, la pertosse contratta dal neonato nei primi mesi di vita può essere molto grave o persino mortale e la fonte di infezione è frequentemente la madre. Il periodo raccomandato per effettuare la vaccinazione è il terzo trimestre di gravidanza, idealmente intorno alla 28a settimana, al fine di consentire alla gestante la produzione di anticorpi sufficienti e il conseguente passaggio transplacentare. Il vaccino dTpa si è dimostrato sicuro sia per la donna in gravidanza sia per il feto». Inoltre, il ministero ricorda che «la vaccinazione anti‐influenzale è raccomandata e offerta gratuitamente alle donne che all’inizio della stagione epidemica dell’influenza si trovino nel secondo o terzo trimestre di gravidanza».
Infine, per quanto attiene i vaccini controindicati in gravidanza, il ministero della Salute spiega che «i vaccini contro MPR e varicella, contenendo vaccini a virus vivi attenuati, non possono essere somministrati in gravidanza, sebbene l’effettuazione accidentale della vaccinazione in donne che non sapevano di essere in gravidanza non ha mai fatto registrare un aumento di aborti o malformazioni». Per questo motivo, è «opportuno che le donne che intendono programmare una gravidanza siano informate della necessità di posticiparla di un mese dopo la vaccinazione. Si sottolinea che l’esposizione accidentale della donna in gravidanza alla vaccinazione o l’inizio di una gravidanza entro le quattro settimane successive alla vaccinazione non rappresentano indicazioni all’interruzione volontaria di gravidanza. Nel caso una donna non risulti immune, è importante che sia vaccinata prima della dimissione dal reparto di maternità o, comunque, le sia fissato un appuntamento presso il servizio vaccinale nel periodo immediatamente successivo al parto».
Tra le vaccinazioni attualmente non consigliate, il ministero ricorda che la «la vaccinazione anti‐HPV non è attualmente consigliata durante la gravidanza, poiché non sono stati effettuati studi specifici sull’impiego del vaccino in donne gravide. L’eventuale somministrazione accidentale in gravidanza non comporta comunque l’indicazione all’interruzione volontaria della stessa, mentre la vaccinazione dovrà essere sospesa e le successive dosi rimandate sino al completamento della gravidanza».

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L’abuso del cellulare potrebbe danneggiare la memoria degli adolescenti

Negli ultimi 20 anni, la rapida evoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha causato un aumento dell’esposizione artificiale ai campi elettromagnetici a radiofrequenza o radiazioni a microonde (RF-EMF), i cui effetti sulla salute sono ancora sconosciuti. Le indagini finora svolte dai ricercatori si sono concentrate sulle funzioni neurocognitive, dato che il cervello è l’organo più fortemente esposto durante una telefonata con cellulare o cordless, e un cervello in via di sviluppo, come è quello delle persone fino ai 15 anni, potrebbe essere particolarmente suscettibile alle alterazioni da RF-EMF. In questa fascia d’età, le funzioni di memoria sono particolarmente importanti perché per l’apprendimento sono necessarie codifica, elaborazione e recupero delle informazioni, e gli adolescenti di oggi probabilmente avranno una più alta esposizione cumulativa a RF-EMF durante tutta la loro vita. Tuttavia gli studi condotti sul tema hanno prodotto risultati incoerenti o controversi, almeno fino ad oggi. A luglio scorso è stato infatti pubblicato, sulla rivista scientifica Environmental Health Perspectives, lo studio HERMES https://ehp.niehs.nih.gov/doi/10.1289/, un’analisi prospettica che ha studiato l’effetto delle radiazioni a microonde derivanti dalle comunicazioni wireless sulla memoria di 895 adolescenti svizzeri, confermando che la dose cumulativa di RF-EMF nel cervello è associata ad una significativa riduzione delle prestazioni della memoria figurale in un periodo di 1 anno, con una diminuzione più marcata osservata negli utilizzatori dell’orecchio destro.
Già alcuni precedenti studi di esposizione controllata, in animali ed esseri umani, avevano trovato prove limitate degli effetti sia positivi che negativi delle onde RF-EMF sulle prestazioni della memoria e sui relativi processi neurali. Tra i pochi studi epidemiologici c’è stato, ad esempio, lo studio australiano MoRPhEUS su una coorte di 317 adolescenti con un’età media di 13 anni, che ha riscontrato risposte più veloci ma meno accurate nella memoria attiva e nei compiti di apprendimento associativo per coloro che facevano un uso frequente del cellulare. Lo stesso risultato è stato però osservato anche in relazione al numero di messaggi di testo (SMS), che coinvolgono un’esposizione a RF-EMF solo marginale, suggerendo quindi che ci siano altri fattori alla base di questo processo.
Tuttavia questo e gli altri precedenti studi usavano come criterio di valutazione unicamente il numero di chiamate effettuate, per altro dichiarato dagli spessi partecipanti (e spesso da questi sovrastimato) o non consideravano i fattori “confondenti” derivanti da uno stile di vita legato all’utilizzo di diversi tipi di media che incidono su cognizione, comportamenti ed emozioni degli individui.  L’esposizione personale a RF-EMF dipende non solo dal numero di chiamate effettuate, ma da altri parametri come la durata della chiamata, la distanza del dispositivo dal corpo e la rete utilizzata per la chiamata. Per esempio, il sistema globale per le comunicazioni mobili standard (GSM) produce un’esposizione circa 100-500 volte superiore rispetto al sistema universale di telecomunicazione mobile (UMTS).
Lo studio HERMES, invece, è stato il primo studio del genere che ha utilizzato dosi di RF-EMF modellate individualmente e l’uso di telefoni cellulari è stato misurato sui dati registrati dall’operatore telefonico e non sulle dichiarazioni dei soggetti arruolati. Data la lateralizzazione emisferica della memoria, inoltre, è stata condotta un’analisi di lateralità per la preferenza dell’orecchio delle telefonate, e per controllare i fattori di confondimento dei comportamenti legati all’utilizzo dei media, è stata effettuata un’analisi stratificata per gruppi di media.
I risultati preliminari di questo approccio suggeriscono, dunque, che un’alta esposizione a radiazioni a microonde possono influenzare in modo potenzialmente negativo funzioni cognitive come la memoria figurale, che coinvolge regioni del cervello per lo più esposte durante l’uso del telefono cellulare. Tuttavia tali risultati non forniscono prove conclusive degli effetti causali e dovrebbero essere interpretate con cautela fino a conferma in altre popolazioni. Inoltre le associazioni con parametri di utilizzo dei media con esposizioni RF-EMF basse non hanno fornito un supporto chiaro o coerente degli effetti dell’uso dei media non correlato a RF-EMF, con la possibile eccezione di associazioni positive (non statisticamente significative) coerenti tra memoria verbale e durata del traffico dati. Non è ancora chiaro quali processi cerebrali potrebbero essere interessati e quale meccanismo biofisico possa svolgere un ruolo in questa associazione.
Il potenziale rischio a lungo termine può essere però ridotto al minimo evitando situazioni di esposizione cerebrale elevata come accade quando si utilizza un telefono cellulare con la massima potenza vicino all’orecchio a causa, ad esempio, di una cattiva qualità della rete.