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Caffeina in gravidanza, possibile causa di sovrappeso nell’infanzia

Consumare caffeina durante la gravidanza potrebbe incrementare il rischio di obesità durante l’infanzia. E’ quanto emerso da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica BMJ curato da ricercatori norvegesi, che ha coinvolto più di 50.000 coppie madre-bambino. Le madri hanno riferito agli studiosi il quantitativo di caffeina assunta quotidianamente a 22 settimane di gravidanza, successivamente i ricercatori hanno seguito i figli durante gli otto anni dalla nascita.
Ebbene, dopo aver corretto eventuali variabili esterne, gli scienziati hanno scoperto che, se confrontate alle madri che avevano somministrato meno 50 milligrammi di caffeina al giorno, i figli di coloro che ne hanno assunto dai 50 ai 199 milligrammi avevano solo leggermente la possibilità di essere sovrappeso all’età compresa tra i 3 e gli 8 anni. Invece, i figli delle madri che avevano somministrato dai 200 ai 299 milligrammi al giorno, erano considerati sovrappeso all’età di 5 anni, infine, i figli delle delle madri che avevano somministrato più di 300 mg di caffeina al giorno – in pratica circa 5 caffè espressi al giorno – erano in sovrappeso all’età di 8 anni.
Lo studio in questione è osservazionale, vale a dire che ci si è limitati solo ad osservare il fenomeno in questione, e non sono state tratte conclusioni riguardo le cause del perché di questo sovrappeso. In ogni caso, come ha riferito la direttrice dello studio, “le donne farebbero bene a seguire le raccomandazioni e ridurre quanto più possibile l’apporto di caffeina durante la gravidanza. Infondo, la caffeina non è una sostanza necessaria”.

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Diabete, stile di vita “attivo” aiuta a proteggersi

“Camminare, Correre, Muoversi per una città in salute” è questo il titolo del convegno tenutosi a Roma in aprile 2018 in coincidenza della Giornata mondiale dell’attività fisica. L’obiettivo è stato quello di ribadire i benefici dell’attività fisica. E’ proprio l’OMS a ribadire che una discreta attività fisica è di importanza cruciale per tutti gli adulti, indipendentemente da genere, etnia o stato socio-economico, con particolare attenzione a coloro che sono affetti da patologie non trasmissibili come ipertensione arteriosa, diabete o disabilità.
Ebbene, proprio nei pazienti diabetici di tipo 2, insulino-dipendenti, è stato visto che una componente chiave è la tendenza alla sedentarietà, attitudine che dovrebbe essere quanto prima affrontata anche nel piano terapeutico di trattamento, con l’attività fisica. Attività fisica svolta principalmente in zona aerobica e di resistenza, con il fine di garantire il miglioramento del controllo glicemico e della sensibilità periferica dell’insulina, contribuendo alla prevenzione e al rallentamento dello sviluppo delle complicanze micro e macroangiopatiche e alla riduzione del rischio cardiovascolare, con l’obiettivo più nobile di arrivare a ridurre i dosaggi parziali o totali della terapia farmacologica.
Le raccomandazioni dell’American College of Sports Medicine (Acsm) e della American Diabetes Association (Ada) sono basate su attività fisica aerobica di intensità moderata, per una durata di almeno 2,5 ore a settimana di esercizio. Schema che va inquadrato nell’ottica di più ampio respiro di una revisione completa dello stile di vita.
Ha efficacia limitata quindi intervenire farmacologicamente e poi praticare uno stile d vita sendentario, fatto di eccessi. Anche in termini di prevenzione del diabete, si potrebbe beneficiare dell’attività fisica laddove svolta con regolarità.
Per informare correttamente sulle buone pratiche, l’Associazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici ha predisposto un vademecum dal titolo “Diabete: LIBERI di vincerlo. Alleniamoci a farlo!” scaricabile qui in PDF. In tutti i casi prima di intervenire sul cambiamento delle abitudini è necessario confrontarsi con il proprio medico specialista di riferimento.

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Malattie croniche e lavoro, presentate nuove linee guida al Parlamento Europeo

Promuovere l’inserimento e il reinserimento lavorativo delle persone con le malattie croniche e migliorare la loro occupabilità, queste in sostanza le finalità del progetto Pathways presentato il 20 marzo 2018 al Parlamento Europeo dai Partners del Consorzio EU PAthways Project.
Spesso le persone con malattie croniche e problemi di salute mentale sono soggette a numerose problematiche sul posto di lavoro, con conseguenze dirette individuali. Questo trend e l’attuale crisi economica rendono la problematica ancora più complessa, il che pone in evidenza la necessità di migliorare la partecipazione delle persone al mercato del lavoro.
Il progetto Pathways ha coinvolto 10 Paesi, i Partners del Consorzio EU Pathways hanno reso partecipe tutte le parti interessate tra cui lavoratori, politici, sindacati, associazioni di pazienti, organizzazioni non governative nazionali ed internazionali. Il progetto ha evidenziato la creazione di percorsi di sensibilizzazione tra i diversi paesi, ove l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle malattie croniche rappresentano un fenomeno già molto esteso.
Molte malattie infatti, tra cui tumori, malattie muscolo-scheletriche come il mal di schiena, cefalee, diabete, ipertensione, colpiscono le persone nel corso della loro vita lavorativa: in pratica, una persona su quattro ha una malattia cronica. Il mondo del lavoro spesso non riesce ad adottare misure di inclusione e reintegrazione, rendendo spesso difficile la vita del lavoratore con patologie. La stessa certificazione di “disabile” rende spesso impossibile il ritorno alla normale vita lavorativa.
Per fronteggiare efficacemente questa problematica il progetto Pathways ha sviluppato e presentato 7 Raccomandazioni e 34 Azioni che possono supportare l’attuazione di strategie per migliorare la situazione occupazionale di persone con malattie croniche, tenendo conto delle conoscenze acquisite in merito alla disponibilità di strategie e servizi, agli utenti di questi servizi, alla loro efficacia e alle esigenze di lavoro incontrate e non soddisfatte delle persone con malattie croniche.
Per ulteriori approfondimenti è possibile visitare il sito ufficiale del progetto, al link https://www.path-ways.eu/.

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Disfunzione erettile, per contrastarla utile esercizio fisico

Stili di vita sedentari e sovrappeso non aiutano, anzi, potrebbero accentuare il problema della disfunzione erettile. L’esercizio fisico regolare invece da beneficio al cuore, alla pressione, alle articolazioni, ai muscoli e migliora l’umore, ma, soprattutto, tiene lontana la disfunzione erettile negli uomini. E’ quanto è emerso da un recente studio pubblicato sulla rivista Sexual Medicine e diretto dall’Institute of Public Health della University of Southern Denmark, in Danimarca. In pratica, fare attività durante la settimana, 40 minuti per 4 volte, per un periodo di almeno sei mesi, potrebbe migliorare il problema della disfunzione erettile.
Gli autori dello studio hanno revisionato circa 2000 studi pubblicati tra il 2006 e il 2016, ed hanno confermato che potrebbe essere sufficiente esercizio fisico da moderato ad intenso, riguardanti attività fisiche come l’uso della bici per andare a lavoro oppure attività più impegnative come lo sci. In sostanza, maggiore è l’impegno profuso per l’attività fisica e migliori sarebbero i benefici sulla disfunzione erettile.
Secondo gli studiosi l’attività fisica a vantaggio della disfunzione erettile è supportata da meccanismi noti tra cui vasi sanguigni più elastici, consentendo un maggior afflusso di sangue agli organi sessuali. Parte dello stesso meccanismo è usato tra l’altro dal noto farmaco usato per la disfunzione erettile.
Lo studio conclude che l’esercizio fisico potrebbe essere prescritto come un trattamento, magari rivolgendosi ad un medico che possa guidare in questo tipo di attività, e successivamente al fisioterapista. Ciò al fine di evitare di ricascare nelle vecchie abitudini che potrebbero cancellare invece i benefici ottenuti.

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Arresto cardiaco, i sintomi possono passare inosservati?

Quali sono i sintomi di un attacco di cuore e come possono essere riconosciuti? I classici sintomi dell’arresto cardiaco sono principalmente costituiti da dolore al petto, spesso descritto come senso di oppressione, e fiato corto, principalmente durante esercizio fisico, che potrebbe verificarsi anche quando si è a riposo.
Spesso però i sintomi sono più subdoli: se ad esempio ci si affatica molto durante le normali attività quotidiane, oppure si suda inaspettatamente, o si è nauseati quando si cammina o si salgono le scale, la prima cosa che dovrebbe venire in mente è il cuore. Se dovesse essere così, allora, la prima cosa da fare è chiamare il proprio medico curante.
Nessuno di noi può conoscere il proprio corpo meglio di se stesso, la cosa principale da fare è porre attenzione alla presenza di sintomi specifici. Certo, ci si può anche sbagliare, ma non sarebbe un problema. Invece, se non si agisce subito, le conseguenze potrebbero essere addirittura fatali.
Altri sintomi a cui prestare attenzione includono dolore al collo, mascella, schiena o spalle, vomito o sintomi gastrointestinali, gonfiore alle caviglie, gambe e piedi. Mentre, palpitazioni oppure sensazione di colpi sul petto, potrebbero essere indice di un ritmo cardiaco alterato o aritmia, a volte associato associato a vertigini e quasi svenimento.
Anche se non si ha storia familiare di eventi cardiovascolari, ogni soggetto può essere a rischio a causa dell’avanzare dell’età, del fumo, della mancanza di esercizio fisico, oppure patologie croniche come diabete, ma anche stress, ansia e depressione.
Una visita periodica dal medico specialista può ovviamente fugare ogni dubbio ed individuare l’eventuale presenza di fattori di rischio tra cui ipertensione arteriosa e colesterolo alto, che possono essere trattati con i farmaci necessrai o con il cambiamento dello stile di vita, comprese le abitudini alimentari.